Limba in Chiesa – Lettera a Bachisio Bandinu – 29 gennaio 1995

Carissimo Bachisio,
nel grigiore livido di una giornata infastidita da improvvise e fredde raffiche di un ventaccio multidirezionale il tuo articolo sui “Mercanti nel Tempio” ha avuto il pregio di suscitare in me una gran voglia di “cuntrastà”.
Chi ha detto che la lingua della liturgia è un fatto che interessa solo le gerarchie della Chiesa? Sono forse queste le “legittime” e solo rappresentanti di Dio? A leggere te sembrerebbe di sì. Affermi che si dia a Cesare… e a Dio…
La lingua in Chiesa, in quanto volta a dialogare con Dio, appartiene alla competenza esclusiva delle gerarchie ecclesiastiche? Ai politici non resta quindi che parlare fra di loro, fra Bulzi, Cagliari, Palazzo Chigi etc. sino al Tribunale per i Diritti dell’Uomo per ottenere che la lingua sarda sia usata nelle ordinanze amministrative, nei verbali d’udienza, negli atti notarili e quant’altro (ineccepibile n.d.r.), avvolgendosi in un fidente silenzio quando entrano in Chiesa perché solo ai Sacerdoti è dato conoscere quale lingua, in quella contrada, si parla con Dio.
In virtù di questo ragionamento i sardi (e così i Calabresi, i Valdostani etc) sono stati costretti ad ascoltare parole magiche, misteriose musicalmente suggestive, incise (in parte) nei dischetti della memoria e quindi ripetute e cantate insieme al celebrante, quale rito propizionatorio di cui ignoravano i significati.
Oggi non è più così. La Chiesa afferma che il popolo di Dio partecipa consapevolmente al rito e lo celebra da protagonista, nella propria lingua; in quella parlata. Il dire che solo le gerarchie ecclesiastiche sono deputate a tradurre dal testo originale (Ebraico? Greco? Latino?) e che solo loro possono giudicare dell’opportunità della celebrazione in una nuova lingua, significa ridurre la celebrazione al solo rito visto che i contenuti si salvano anche nel dialetto più povero.
L’aver spogliato il mistero rivelandolo in lingua italiana ne ha spento la suggestione e, nell’immaginario popolare, la nobiltà che elevava il rito al mistero dell’immensità incomprensibile – eppur così vicina – di Dio. Così vicina perché accanto al Dio del Sacerdote – che lo celebrava in latino – ne fioriva un altro al quale l’umile sardo si rivolgeva chiamandolo “Babbu Nostru” invocando da lui sicurezza, comprensione e salvezza; un Dio alla cui Madre chiedeva (il sardo, non Dio): “preca prò noisateros peccadores como e in s’ora de sa morte nostra amingesus” (così pronunziavano a Baunei). Sì, quando passavano dal sardo al latino c’era sempre un po’ di confusione. Ricordo che alla Madonna di Gonare si tributava un rito molto sentito e vivamente partecipato dalle donne della regione: “Su Basteccu” (che altro non era che un augurante Pax Tecum).
Don Sanna, parroco di Baunei, non si è mai rivolto al popolo di Dio, raccolto nella Chiesa della mia infanzia, in altra lingua se non quella del suo paese (che non era Baunei ma uno dei tanti del Campidano). Sì, venivano i missionari che parlavano in italiano. Loro non parlavano dall’altare, come Don Sanna, ma dal pulpito e la gente li ascoltava con rispetto tanto maggiore quanto più alto era il mistero del loro messaggio. (Mi avevano colpito – pur essendo io un parlante in italiano – parole come ghepì – per cappello – e montura per divisa).
La gente non li capiva ma era certa che dicessero cose che venivano dal Dio del Mistero, dal Dio della Potenza, dal Dio buono, misericordioso ma che, all’occorrenza, scatenava Babele o annientava Sodoma e Gomorra.
Era il Dio al quale ci si rivolgeva con il ‘Tantumergo” con il “Magnificat” (che per il sig. Barca – organista-barbiere che intonava i canti era “Mannificat“). Sì, era il Dio del Mistero, dell’onnipotenza.
Però il Dio che faceva da tramite, che stemperava severità e potenza in misericordia, dolcezza, amore, sollecitudine, dolore, pianto, morte e resurrezione, quello che veniva “dae sas intragnias” di Maria, capiva anche il sardo si lasciava parlare in confidenza, infondeva coraggio e ridava speranza.
È stato un Borgia, ai tempi – credo – di Filippo II, nella sua qualità di generale dei gesuiti a vietare l’uso del sardo (che i Camaldolesi avevano cominciato ad introdurre) -nella celebrazione dei riti e ad imporre, nella parte non latina, lo spagnolo.
Perché? Semplice: volevano essere capiti quando spiegavano Dio – nelle sue beatitudini e castighi – ma anche quando impartivano ordini ai sudditi. Le motivazioni non sono certo religiose ma chiaramente, direi; pesantemente: politiche.
E i politici? Zitti?
Non diversamente dai colleghi spagnoli si sono comportati i gesuiti piemontesi quando sono ad essi subentrati.
Lo spagnolo è stato sostituito dall’italiano. Per amore di Dio? Anche, ma anche per obbedire al sergente, al sopraintendente, al Prefetto. E i politici?
Perché dovrebbero sentirsi estranei al tema della lingua usata nel rito religioso? La Chiesa sa bene che il tema è squisitamente politico. Nessuno discute i contenuti del messaggio religioso.
In questi ultimi decenni è stato abolito il latino perché ogni popolo si riappropri a pieno titolo del rito esprimendolo nella propria lingua.
Tu che da politico vuoi tributare a Cesare quel che è di Cesare non ritieni che anche il popolo sardo abbia diritto (a questo punto direi: dovere) proprio perché “popolo”, dotato di una sua precisa ‘irripetibile” identità ad essere rispettato come tale? Un popolo che diventa Cesare.
È dovere del politico lottare perché sia rispettato non solo da palazzo Chigi, ma da tutti e quindi anche dalla Chiesa che è tanta parte della vita sociale della nostra comunità?
La lingua è un fiume nel quale scorrono cultura, sentimenti nobili, abietti, gioia, tormento, scoramento, esaltazione, eroismo, santità, tradizione, modo di essere. Un fiume, ora impetuoso fra costoni dirupati, ora fluente fra sponde dolci nelle cui acque si specchiano gli azzurri dei cieli e le ombre accoglienti di piante che definiscono scenografie nelle quali è bello abbandonarsi alle suggestioni della fantasia.
Un fiume ora gioioso, ora sereno, ora furioso, ma sempre vivo e vivificante.
Perché mettergli argini (ovvero bavagli) dighe, sbarramenti e così ucciderlo o. quantomeno trasformarlo in lago stagnante, devitalizzandolo?
Anche una lingua può essere uccisa. Se la scacci dalla Chiesa, come dal Tribunale, se non lotti per impedirlo, stai concorrendo ad ucciderla. E con essa l’identità del popolo. Il requisito più alto che ne testimonia l’esistenza e da coscienza del proprio esistere all’intera comunità. Questo è un fatto politico. O meglio: un delitto politico.
Se tu rimproveri ai politici di blaterare di lingua senza in effetti difenderla nelle sedi deputate, limitandosi a partecipare al coro dei protestatari con i panni del vindice del sacro diritto conculcato ed offrendo così squallido spettacolo di velleitarismo ed insieme ipocrisia, ebbene sì!, hai ragione non una ma mille e mille volte, ma se sostieni che il politico è estraneo all’atto che la Chiesa sopprima nel rito la lingua dei parlanti, sostituendola con un’altra, ebbene, hai torto, non una ma mille volte.
Il Concilio, o Sinodo (o come accidenti si chiama) dei vescovi aventi ufficio in Sardegna nel 1924, ha confinato la lingua sarda col folklore dei “gosus“. Era il fascismo!
Dio guardi che vinca e comandi Berlusconi. Ci imporrà il rito ambrosiano?
Concludo. La guerra ai diversi idiomi parlati negli Stati è cominciata alla fine del ‘700, con la costituzione della stato centralista; con la rivoluzione francese e la vittoria dei giacobini.
Il Terrore, oltre ghigliottinare intere fasce sociali, ha ghigliottinato (questo era il suo intento non del tutto riuscito) il bretone, il catalano del rossiglione, il basco, l’occitano, il provenzale (costa Azzurra, Alpi Marittime) etc. etc, riducendo il tutto alla sola parlata di Parigi.
Aveva bisogno che i militari chiamati in servizio da tutte le parti della Francia (per la prima volta è stata disposta la coscrizione obbligatoria) capissero ed eseguissero, senza interpreti o mediazioni, gli ordini. La Chiesa francese si è rapidamente adeguata.
Ebbene i politici sardi hanno coscienza (spero) che siamo dentro la storia.
È tempo che da oggetto ne diventino soggetti. Ed io ho coscienza che non ti ho convinto perché eri convinto da prima.
Mario