L’ipotesi federalista sarà per i sardi fattore di sviluppo? – fine anni ’90

D. Presidente Melis, la stagione politica ed istituzionale del nostro Paese sembrerebbe sempre più dominata dall’esplodere d’un federalismo d’ogni genere (amministrativo, fiscale, politico, economico, sociale, ecc.), tanto da essere divenuto in questi ultimi anni la bandiera che ogni formazione politica, conservatrice o progressista che sia, deve sventolare per ottenere consenso.
Ora, lei che, per coscienza politica e per formazione intellettuale, è stato sempre un fervente assertore e missionario dell’autonomia isolana e d’uno Stato federale, come interpreta questo cambiamento di scenario? Lo reputa favorevole per gli interessi dell’isola? Ritiene che la nostra azione politica, come sardi, possa trarre vantaggi da un’omologazione con l’azione di quelle altre comunità più fortunate e fiorenti della nostra?
R. Forse per capire le ragioni profonde del nostro autonomismo sardista, per capire correttamente lo sviluppo della nostra azione regionalista occorrerebbe tornare a quella stagione culturale dei ventenni e trentenni del primo sardismo. Essi erano regionalisti ed europeisti insieme, perché la loro visione federalista dello Stato, dell’Europa, avrebbe consentito di annullare diversità e sopraffazioni, mettendo insieme interessi diversi e chiamandoli a convivere in un equo rapporto di equilibri.
Le nostre radici federaliste ci riportano al modello costituzionale che James Madison elaborò per gli States americani, un federalismo in cui la centralità del potere presidenziale trovava armonia con larghissimi spazi di autonomia dei singoli stati.
I nostri federalisti di oggi li conosco anche personalmente, ma essi non sanno, parlando di federalismo, neppure cosa esso sia. Il loro obiettivo è quello di trovare un collante politico che oggi è incentrato soprattutto nella pressione fiscale. Per questo parlano di federalismo fiscale ed economico, ammantandolo poi – per far più paura – -d’un secessionismo politico.
Ecco io credo che negli ultimi 50 anni siano due le realtà che si sono prepotentemente affacciate nello scenario politico: l’Europa comunitaria innanzitutto e le Regioni d’Europa. Ad eccezione della Germania, le regioni non esistevano in Italia, non esistevano nel Belgio ed in Spagna, non c’erano in Francia. Oggi invece le istituzioni regionali sono presenti un po’ dovunque, anche se non sempre con analoghi poteri e competenze.
È mia opinione, o forse solo una mia visione un tantino utopica, che nel futuro prossimo gli Stati nazionali dovranno sempre di più cedere poteri e sovranità alle regioni da una parte ed all’Unione Europea dall’altra. Purtroppo la mia valutazione d’utopia trae convincimento dal fatto che in Italia non ci sia ancora cultura del regionalismo, e non l’hanno neppure i presidenti delle regioni a statuto ordinario che credono di essere a capo di un ufficio e non di una realtà territoriale particolare, di uomini e d’interessi specifici e peculiari. Ci sono ancora coloro che sostengono la prevalenza, in Italia, d’una cultura e d’una tradizione municipale e non regionale. Ma se è vero che erano definiti municipi, è pur vero che il dominio dei Medici non s’esauriva nella cinta muraria di Firenze e che il dominio di Ludovico il Moro andava ben oltre la città di Milano per giungere in Brianza, nella Lomellina fin allo Stelvio. La Repubblica di Venezia era una realtà territoriale vasta, non certo comunale, ed era a capo di una grande e ricca realtà territoriale in quello che è oggi il nostro Nordest.
Il pericolo è che questa cultura municipale sopravanzi le istanze regionaliste e porti alla costituzione di una Repubblica delle forti e potenti città. Una Repubblica dei forti poteri che assoggetti i soggetti deboli. Se le Regioni non saranno capaci di rivendicare un loro ruolo politico d’autonomia, di programmazione e d’autogoverno, interpretando quali sono le specificità, e quindi le attese ed i bisogni, delle loro comunità, questa aspettativa rimarrà vana, pura utopia.
Stentiamo a capire, di fronte all’esplodere di tanti egoismi, che ci troviamo di fronte ad una svolta epocale nella civiltà democratica. La cultura federalista dell’autonomia delle Regioni d’Europa può essere l’atteso appuntamento per la svolta. Io sono convinto, credo fermamente, che noi sardi siamo cresciuti sul piano culturale, che sentiamo maggiormente la nostra identità. Ora dobbiamo trovare quella corrente di pensiero e d’impegno che ci dia la scossa, il sussulto per riprendere la strada verso l’emancipazione del nostro popolo. Il pericolo è che non trovandolo si sia nuovamente sconfitti.