Intervento al Convegno di studi sul controllo governativo delle Leggi regionali – Consiglio Regionale della Sardegna -18 Aprile 1986

 Ho ascoltato con estremo interesse le relazioni e gli interventi che hanno un alto livello scientifico, ma anche contenuti politici che consentono a lutti noi di esprimere valutazioni e proposte che, a conclusione di questa giornata di dibattito, dovremmo formulare per enucleate alcune linee di indirizzo: per il confronto con il Governo, per create le premesse di un rapporto nuovo, più creativo, più fecondo, con i poteri centrali dello Stato, per superare anche una condizione che va, stranamente, insterilendo, inaridendo il rapporto tra Regione e Governo. È una condizione che fa scivolare tale rapporto in una sorta di antinomia, che sembra individuare nel Governo centrale lo Stato con tutti i suoi valori e nelle Regioni una sorta di potere antitetico, che tende a destabilizzare, che tende a disgregare, a espropriare lo Stato. E non si sfugge neanche al pericolo che chi combatte la battaglia regionalista con sufficiente determinazione ed energia possa essere consideralo pure un separatista, sol perché vorrebbe esprimere nell’istituzione regionale un complesso di funzioni, di competenze, di poteri capaci di consentire alla popolazione che costituisce la comunità di quella regione di governare il suo sviluppo, di essere determinante nelle scelte che consentono una tale prospettiva.
Il rapporto, insomma, sta diventando sempre più difficile.
Con le immagini sempre più aggiornate del vocabolario politico si dice che le Regioni «volano basso», cioè non volano. Le Regioni vanno faticosamente assolvendo al proprio ruolo, che diventa sempre più cartolare, sempre meno propositivo e creativo, e uno degli elementi che rende tutto ciò possibile è l’istituto del rinvio. La Costituzione non parla di controllo; non ne parla, per (quanto ci riguarda, neanche lo Statuto. Noi non siamo controllati, però il Governo centrale dispone di questo strumento: il rinvio! Il rinvio che altro non è che un invito al ripensamento. In sostanza, l’istituto del rinvio sembrerebbe concepito come una forma di collaborazione, un invito alla riflessione per un approfondimento, per una valutazione più attenta, più puntuale, su un determinato tema oggetto di legislazione regionale, mentre in effetti così non è. In realtà è controllo oppressivo, fiscale, devitalizzante dell’istituzione regionale. L’istituzione perde di significato, perde forza propositiva, perde di forza innovativa, diviene la contraddizione ineluttabile di uno Stato che si è realizzato a metà; di uno Stato regionalista che è regionalista alla base ma centralista al vertice, che continua ad essere organizzato come ai tempi dello Statuto Albertino, come ai tempi dello Stato, non dico fascista, ma certo liberale; uno Stato esasperatamente centralista nelle strutture di vertice (Governo e Parlamento), mentre pretende di poter essere regionalista nell’organizzazione di base. Tutto ciò ovviamente crea una incoerenza e quindi una conflittualità che riprecipita nel precario, nell’incerto, nel contingente tutte le conquiste che il regionalismo riesce a realizzare. Una involuzione, determinata da varie ragioni, introduce all’interno dello Stato — tra gli organi e le istituzioni dello Stato — forme di espropriazione manifestamente, clamorosamente illegittime, che non sono affatto garantite dalla Corte Costituzionale.
La Corte Costituzionale non è più un giudice nei rapporti tra Stato e Regione, ma finisce per essere una articolazione politica del potere che la elegge. La elegge il potere centrale e la Corte serve funzionalmente il potere centrale e si comporta in modo coerente agli indirizzi della politica contingente; si badi: non permanente, ma correlata alle linee che di volta in volta i governi vanno proponendo. Ad esse la Corte Costituzionale si è sempre adeguata: non è quindi un giudice.
È tempo che le cose siano dette con chiarezza. La Corte Costituzionale è un giudice se è imparziale, se è espressione delle due parli, se ha mandato, in modo equilibralo e paritetico, dei soggetti cui deve rendere giustizia: da un lato il potere regionale e dall’altro il potere centrale. Quest’ultimo peraltro si atteggia ad organo sovraordinato, ad organo gerarchicamente superiore nei confronti delle Regioni, che vede in termini di subalternità, quando invece lo Stato è, per definizione, nella sua stessa struttura regionalista.
Deve essere invece il contrario: lo Stato è la Regione, perché la Regione è il territorio dello Stato, perché la Regione è il popolo dello Stato, perché la Regione è l’ordinamento dello Stato, perché la Regione è il cardine dello Stato; almeno in uno Stato regionalista, naturalmente!
Ed allora, che significato ha questo Governo centrale sovraordinato nei confronti delle Regioni sotto ordinale e subalterne? Ha soltanto il ruolo di negare la Costituzione, di sconvolgere la Costituzione, di riportarci allo Statuto Albertino cercando di espropriare il popolo delle conquiste democratiche realizzate attraverso la Costituzione? I motivi per cui l’istituto del rinvio può operare tanti danni sono molti, e li possiamo individuare. È stato detto, molto opportunamente, che mancano indirizzi generali. Chi li stabilisce questi indirizzi generali? Il Parlamento forse? La conferenza Stato-Regioni? La Commissione per le questioni regionali? No, li stabilisce il Governo con tutta la discontinuità, con tutte le contraddittorietà, con tutta l’inaffidabilità di principi che tali non sono, o che lo sono di volta in volta a seconda della congiuntura politica, del quadro politico.
È sempre sfuggito che la Conferenza Stato-Regioni dovrebbe avere il ruolo di definire i parametri, i principi fondamentali, i punti di riferimento; ma la Conferenza non definisce proprio niente. Le volte che ho avuto l’onore di partecipare alle sue riunioni ho colto tutta l’insofferenza, la fretta e il bisogno di concludere ancor prima di un approfondimento (in verità, quando c’è molto, ma molto epidermico) dei temi e dei problemi in discussione.
In quella sede si individuano, per esempio, la massa di risorse finanziarie che il Ministro del Tesoro intende mettere a disposizione delle Unità sanitarie locali, e quindi delle Regioni, per fronteggiare i problemi della sanità, oppure si affrontano temi analoghi. I principi dell’ordinamento rimangono abbastanza estranei a questi incontri. Cosi avviene anche nella Commissione parlamentare per le questioni regionali. L’ordinamento giuridico repubblicano, l’interesse generale della collettività diventano così principi astratti che nella pratica possono essere interpretati a seconda dei casi con la massima soggettività.
La verità è che per svuotare di rilevanza politica l’operare delle Regioni non si esita (non so dire meglio, gli studiosi hanno espressioni eleganti più adatte ad un seminario giuridico) a ricorrere al sistema truffaldino di gabellare per censure di legittimità censure che sono di merito, cioè si entra nel inerito sub-specie «vizio di legittimità». Si tratta di un falso, di un duplice falso, perché in questo modo si tende a censurare materie che sono sottratte secondo il dettato costituzionale al controllo, ma si tende soprattutto a sottrarre competenze al giudice (che è il Parlamento) che dovrebbe valutare la sussistenza o meno dell’inopportunità, la sussistenza o meno della violazione dell’interesse nazionale.
Il Governo si appropria di una competenza (direi con una prepotenza, una prevaricazione della propria sfera) che sottrae al Parlamento in forma surrettizia e illegittima, incostituzionale. Quando il Consiglio regionale riapprovi puramente e semplicemente quella norma, per la decisione che nella sostanza riguarda il merito si va alla Corte Costituzionale, creando una distorsione anche rispetto al ruolo della Corte, costretta a giudicare materia che non è di sua competenza, che concerne la legittimità della legge e non il merito. In tutta la storia dell’autonomia non una volta il Parlamento è stato investito della questione di merito. Ha un significato tutto questo? Ha o no, il significato di un Governo, di un potere centrale che non vuole ascoltare ragioni, che dice: «il Governo sono io, lo Stato sono io; tu sei un mio subalterno, fai quello che io ti dico»?
Ed è tempo che noi, il potere regionale, realizziamo lo Stato in tutta la sua forza democratica, avvalendoci delle prerogative che il popolo ha di gestire in prima persona lo sviluppo regionale, attraverso le sue rappresentanze democratiche. Non è solo affidandoci agli avvocati o alle disquisizioni giuridiche che noi contrasteremo la prevaricazione e il rapporto di forza, ma ricorrendo alla mobilitazione politica dei nostri Consigli regionali e delle forze politiche in modo da recuperare quel prestigio istituzionale che deve essere restituito alle Regioni.
Cos’è ormai il controllo sulle leggi? È un fatto politico? Ma no! È un fatto amministrativo! Sono i funzionari che vanno ricercando nei capoversi delle nostre leggi quegli appigli attraverso i quali si può bloccare l’operatività politica dei nostri Consigli regionali, delle nostre Assemblee legislative, dei nostri governi regionali. Si arriva addirittura a rinvii reiterati, cioè a quelle forme di rinvio per cui, accettando il Consiglio regionale la censura su un determinato aspetto e quindi riapprovando la legge con quella unica modifica, si trova davanti ad una censura su una norma che, pur essendo presente nella legge fin dall’inizio, non aveva costituito oggetto di rilievo nel primo rinvio. È una scorrettezza di gravità eccezionale; è a mio avviso una forma di violazione plateale della norma costituzionale.
Mi pare sia stato Pubusa a dire, nel suo intervento, che deve esistere un continuum tra il rilievo originario e l’impugnativa eventuale davanti alla Corte. Ma se il rinvio è reiterato, e viene mosso un rilievo diverso ogni volta, il procedimento diviene defatigante, si risolve in un atteggiamento ostruzionistico, politicamente volto a paralizzare l’attività della Regione.
D’altronde la garanzia della decisione della Corte Costituzionale è puramente teorica, perché la Corte Costituzionale, nei conflitti di competenza tra Regione e Governo centrale, rifiuta in pratica di rendere giustizia: i tempi minimi per la decisione sono di quattro anni.
Noi abbiamo scoperto in seguito ad una impugnativa di 7 anni fa che la potestà regolamentare, finora esercitata nella nostra Regione dalla Giunta regionale, spetta invece al Consiglio regionale. Ci sono voluti sette anni per dirci questo! Tutti i regolamenti del nostro ordinamento sono illegittimi; e siamo nella paralisi pili totale. Certo il nostro Consiglio regionale, a prescindere dalle varie posizioni politiche, si farà carico di riapprovarli puramente e semplicemente, ma la decisione della Corte Costituzionale ci ha ridotto alla paralisi e solo il senso di responsabilità della nostra Assemblea legislativa potrà salvare dal marasma ii governo della Regione, il governo della nostra società.
Vi è un grande scoordinamento tra gli uffici che partecipano al controllo, dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, al Ministro per gli Affari Regionali, ai vari Ministeri che fanno affluire i loro pareri alla Presidenza del Consiglio. Tutto questo favorisce un controllo di tipo puramente amministrativo, che è affidato ai funzionari, per cui sono i funzionari a valutare le scelte politiche delle Assemblee regionali, a giudicare della sussistenza o meno di esigenze che sottostanno all’adozione di certe leggi.
Il problema è, io credo, quello di consentire alle Regioni un’adeguata rappresentanza ai vertici dello Stato, cioè di dare coerenza alle istituzioni, per cui le Regioni (che governano il Paese nel territorio) devono contare nel momento formativo delle grandi scelte che il Parlamento fa a livello nazionale. Si devono trovare forza e strumenti, io personalmente sono un federalista e quindi non è un mistero ciò che vado sostenendo da decenni e cioè l’esigenza che si individui in una delle due Camere quella pariteticamente rappresentativa delle Regioni.
Tutto il dibattito in sede costituente certo ha indicato una volontà di tipo diverso. È stato citato Mortati, stamane, il grande maestro, i bellissimi interventi che faceva alla Costituente, i quali, purtroppo, non hanno trovato il consenso di altri. Io devo ricordare il nostro Emilio Lussu il sardo Emilio Lussu che ha portato un grande contributo all’elaborazione di una linea federalista. Lo si chiami come si vuole (i nomi hanno scarsa rilevanza), quello che è certo è che le Regioni devono poter contare nel momento delle scelte nazionali, altrimenti saranno solo un’articolazione periferica del potere centrale.
Ma se questo si vuole che siano le Regioni, non c’è bisogno di creare un tale apparato di organi legislativi e di organi di governo. I prefetti facevano molto meglio, erano e sono degli ottimi funzionari. Non c’è bisogno di tutto quest’apparato, non c’è bisogno di tanta finta democrazia per vuotarla nei fatti, per renderla irrilevante.
Se si vuole questo, se si vuole cioè che le Regioni siano organo di periferia, che siano ai margini del potere centrale, tanto vale rimettere in piena funzione quegli ottimi funzionari, che potevano fare benissimo. Ma se vogliamo dare voce autentica al popolo, se vogliamo restituire credibilità alla democrazia regionalista, le Regioni devono contare nel momento del decidere. Tutto il resto è la matrice di ciò che sta avvenendo, di ciò di cui siamo testimoni, di quel «volare basso» che non porta né democrazia né sviluppo.
Io credo che in fondo ci sia anche una scarsa sensibilità regionalista in certe aree del Paese. Regionalismo più acuto, più vivo, più fervido, più intensamente partecipe, più sofferente, si coglie molto più spesso nelle Regioni meridionali, nelle Regioni che hanno da superare il sottosviluppo, che non possono accettare l’esistente, che debbono lottare attraverso questo grande strumento di coagulo delle forze dell’intera società che è la Regione, ritrovando nella Regione il punto di forza di tutte le componenti della società regionale. Mentre lo stesso impegno non mi pare di cogliere nelle Regioni dove i grandi problemi sono già risolti, dove gli assetti sono stati per largo senso conquistati e dove la cultura municipalistica ha un suo valore e una sua tradizione, una sua presenza storica.
Certo, è difficile per l’uomo della strada sapere chi è il Presidente della Regione Piemonte, ma sapere chi è Novelli mi pare che non sia un problema per nessuno, è un nome nazionale, il municipio, il comune (è così anche per Milano) esprimono delle linee che influiscono e incidono a livello ben più ampio.
Quando abbiamo da combattere per certi obiettivi troviamo attenzione, troviamo disponibilità, ma non sempre troviamo la forza di incidere, una forza necessaria per la stessa sopravvivenza delle Regioni. E allora dobbiamo impegnarci per chiarire anche all’interno del fronte regionale qual è l’ampiezza dell’impegno con cui il movimento delle Regioni intende operare, se vi è unità, se vi è sufficiente coerenza di linee. Ricordo, per esempio, lo scherno che ha subito l’amico Benedikter quando rilevava il ruolo internazionale delle Regioni; non possiamo dimenticare che la Regione in qualche modo ha una esigenza — direi fisiologica — di una sua presenza internazionale. Basta pensare che la Sardegna ha qualcosa come 500 mila emigrati e che deve tenere rapporti con queste centinaia di migliaia di persone: 40 mila in Svizzera, 60 mila in Germania. Sono sardi, sono uomini e donne, non sono delle cose che abbiamo strappato dal nostro cuore e che non hanno più rapporti con noi.
Noi li sentiamo vicini, partecipi, e vogliamo recuperare un nostro ruolo nei loro confronti; questo comporta che devono esserci consentite le iniziative più opportune, una nostra presenza come regione.
Oggi il Ministero degli Esteri scopre che esiste il problema degli emigrati e sta tirando fuori un fondo, anche abbastanza rilevante — qualche migliaio di miliardi — per intervenire nella politica degli emigrati. Che si vuole fare? Si vuole espropriare le Regioni anche di questa iniziativa dopo che esse sono state lasciate per lungo tempo in totale solitudine nell’azione a favore degli emigrati?
Ebbene, la Regione sarda dev’essere interpellata ogni qualvolta si discute di trattati internazionali che in qualsivoglia modo possono determinare conseguenze positive o negative sull’economia della Sardegna. Ma io ricordo lo scherno: «Ci dobbiamo preparare, dobbiamo andare a Ginevra anche noi!» Sì con queste infelici battute si esprimeva la ripulsa del ruolo della Regione, un ruolo che cresce, che acquista di prestigio.
Non dobbiamo forse noi in qualche modo tutelare la nostra presenza all’estero, nei commerci, in quelle attività che in qualsivoglia modo favoriscano la crescita e lo sviluppo della nostra economia? Anche questi diventano atti internazionali; certo non di diritto internazionale, non ci trasformiamo in un qualcosa che ci fa titolari di un rapporto internazionale: atti internazionali non di diritto internazionale.
Tutto questo viene assoggettato ad una serie di controlli allucinanti; addirittura si considera atto di diritto internazionale l’operare all’interno del Mercato Comune Europeo.
I presidenti delle Regioni, gli assessori o i funzionari che intendono recarsi a Bruxelles devono avere la preventiva autorizzazione del Ministro per gli Affari Regionali, cioè della Presidenza del Consiglio. Siamo a controlli preventivi così penetranti; è vero che il ministro Andreotti in un confronto con noi a Venezia ha riconosciuto che tutto questo è ridicolo, ma ancora oggi le disposizioni per superare questo ridicolo non sono arrivate e ancora oggi vi sono questi controlli preventivi.
Altro che mettersi a ridere. No, non dobbiamo andare a Ginevra, però dobbiamo rivendicare il nostro ruolo, rivendicare la nostra azione. Esiste questo bisogno di capirci, se vogliamo dar vita ad un’azione capace di vincere la battaglia non contro il Governo (perché questo sarebbe assurdo, veramente fuori da ogni logica), ma perché il Governo sia reale espressione della volontà del paese che si esprime anche attraverso le Regioni.
Noi siamo legittimi rappresentanti del popolo, degli interessi del popolo, delle linee di tendenza che il popolo ci indica guardando al suo sviluppo. Non capisco per quale ragione il Governo debba essere un qualcosa di antitetico nei nostri confronti e si qualifichi «Stato» per chiamarci le «Regioni» nel rapporto Stato-Regione: quasi una antinomia, quasi una necessità conflittuale puramente artificiosa e finalizzata alla conservazione e direi alla restaurazione e ad impedire il processo di sviluppo civile e democratico del nostro Paese. Saremmo però veramente suicidi se pensassimo che il rinvio è solo frutto di malevolenza, è solo frutto di ostilità. Anche noi Regioni, almeno per quanto ci riguarda, troppo spesso vi diamo causa, producendo una legislazione che non merita il rispetto assoluto che noi vorremmo pretendere.
Già il ricorso all’istituto dell’urgenza un po’ troppo frequente crea una disposizione non favorevole nell’organo di controllo chiamato ad esercitare questa sua attività con fretta, per cui, tra il vedere e il non vedere, col rinvio prende tempo. Anche il produrre una quantità di legislazione particolarmente rilevante in coincidenza con certi periodi dell’anno — prima delle ferie estive, prima del concludersi dell’anno finanziario — costringe gli organi di controllo ad un super lavoro, che non sempre può svolgersi con la razionalità, con la lucidità, con la serenità che una attività così seria e così importante può richiedere; per cui si ricorre al rinvio come salvaguardia da responsabilità possibili. E ancora — diciamoci la verità — troppo spesso il legislatore regionale è influenzato da situazioni locali, per cui la nostra legislazione talvolta dà luogo ad una contraddizione tra i principi e le scelte operative che andiamo facendo; tale incoerenza tra i principi e le singole definizioni legittima i rilievi ed i rinvii.
Dobbiamo prendere coscienza, almeno per quanto riguarda noi sardi, di questi momenti di «sofferenza» dell’attività regionale per cui le nostre leggi spesso hanno le «ombre lunghe», come si suol dire, di interessi non del tutto chiari, non del tutto trasparenti; e non sempre la formulazione della norma esprime con chiarezza gli intenti che si vogliono perseguire. Noi dovremmo lottare, impegnarci — soprattutto noi Regioni a statuto speciale — per garantire la nostra autonomia, mentre in effetti siamo stati costretti alle rincorse.
La specialità per noi si è sempre rivelata in termini negativi. Nel ’72 coi decreti delegati le Regioni a statuto ordinario disponevano di una sfera di competenze, di funzioni, di poteri di gran lunga superiori alle Regioni a statuto «speciale»; queste hanno dovuto rincorrere quelle. La Sardegna ad es. ha ottenuto il riequilibrio col D.P.R. 480 del 1975. Poi è venuto il D.P.R. 616 nel 1977, ed anche quel decreto ci ha lasciato una solitudine di poteri decisamente inferiori a quelli di cui disponevano le Regioni a statuto ordinario; la rincorsa della Regione sarda si è conclusa sul piano legislativo nel ’79, con il D.P.R, 348, ma poiché la sua operatività era rimessa all’emanazione di norme di finanziamento si è dovuto attendere fino all’83.
Tra il ’77 e 1’83 la Regione ha marciato senza adeguate competenze mentre le Regioni a Statuto ordinario, spaziavano su ambiti molto più ampi, per cui la nostra specialità si risolveva in un «di meno».
È possibile che il Governo possa accettare per un solo momento che la specialità sia un fatto negativo, laddove è riconosciuto nella Costituzione che la specialità è un fatto positivo? So che non ho eletto assolutamente nulla che consenta di guardare a domani con maggiore serenità, con maggiore fiducia. Tale serenità e fiducia noi potremo avere se ritroviamo all’interno delle istituzioni regionali un momento di unità che individui le possibili soluzioni; non dico che dobbiamo approvare le soluzioni federaliste, alle quali potrebbe puntare uno che milita nel mio partito. Ve ne sono altre intermedie, ritengo, anche sufficientemente efficaci; ma il tempo delle proteste, delle analisi, credo che debba finire.
Credo che debba cominciare il tempo delle proposte. Questo seminario è senza dubbio un’occasione preziosa che ci consente di formulare delle riflessioni e delle proposte.
Individuiamo un organo diverso, sia la Conferenza Stato-Regioni, sia la Commissione per le questioni regionali, siano altri momenti dei poteri dello Stato, ma non possiamo più accettare di essere controllati da un organo di parte, qual è il Governo! È possibile che gli atti amministrativi della Regione siano affidati al controllo di un ente imparziale, come è la Corte dei Conti, un giudice che è neutrale e imparziale, mentre gli atti legislativi, che sono ben più importanti degli atti amministrativi, sono invece affidati ad un organo di parte come il Governo che si arroga il diritto di giudicare quanto rientra nella competenza regionale? Occorre piuttosto un organo imparziale un organo neutrale, ad esempio il Parlamento.
Io credo che si debba superare l’effetto sospensivo del rilievo, perché anche noi abbiamo da fare rilievi alle leggi dello Stato, quando sono lesive degli interessi della nostra Regione. Anche noi dovremmo poter avere lo stesso potere dì sospendere le leggi dello Stato, quando queste si trasformano in un danno enorme per le nostre economie, come spesso accade. Ebbene, se noi non abbiamo tale potere, noi che come il Governo siamo espressione della sovranità popolare, neanche il Governo deve averlo. Evitiamo le sospensioni e affidiamoci ad organi che abbiano un lasso di tempo congruo, ma non eccessivo, entro il quale il conflitto di competenza debba essere definito.
Sono convinto che un rilancio del regionalismo rappresenti un recupero di democrazia e quindi di civiltà del nostro Paese.