Comunicazioni del Governo concernenti la Comunità economica europea – Camera dei Deputati – IX Legislatura – Seduta del 14 Febbraio 1984

Comunicazioni del Governo concernenti la Comunità economica europea :

Presidente. È iscritto a parlare l’onorevole Melis. Ne ha facoltà.
Mario Melis. Signor Presidente, colleghi deputati, signor ministro, l’adesione piena e convinta che il partito sardo d’azione esprime in questa sede sul progetto di trattato istitutivo dell’unione europea, è coerente all’impegno programmatico che i sardisti si sono dati da oltre sessanta anni, sin dal loro costituirsi in partito politico.
Il nostro europeismo non si alimenta di empiti emotivamente universalistici, nella visione utopistica e indeterminata di un mondo liberato dalle tensioni interne e tutto proteso a generiche e incondizionate solidarietà, ma scaturisce dall’analisi rigorosamente razionale e politicamente propositiva che si concreta nella constatazione dell’esaurirsi del ruolo storico assolto dagli Stati nazionali, chiusi ed oppressi nella logica di potenza, logorati dal tentativo costante del reciproco prevaricarsi, in un equilibrio di rapporti tanto pericoloso quanto precario.
Nella politica degli Stati il partito sardo individua la genesi delle dure contrapposizioni che, in nome dei rispettivi nazionalismi, contrabbandano interessi economici particolari, che condizionano e si sovrappongono agli interessi reali delle grandi collettività e, quindi, degli Stati stessi, ridotti a strumento dei grandi gruppi del potere economico.
Al fondo di un tale modello di Stato, che assume la politica di potenza come valore cui subordinare e coordinare l’ispirazione e gli atti di governo, vi è necessariamente lo scontro, tanto più drammatico, quanto maggiori sono gli egoismi da soddisfare. E l’Europa ha pagato un tragico prezzo di sangue all’albagia di potenza, fiorita nella torrida serra della demagogia nazionalista e sfociata nelle pagine oscure della dittatura e della guerra.
È negli Stati nazionali la genesi prima dell’assurdo contrapporsi di popoli, che hanno, per contro, non solo interesse, ma vocazione profonda, all’incontro, per mettere insieme le comuni energie ed insieme costruire un mondo di pace e di progresso.
Non si può costruire l’Europa partendo dalla realtà degli Stati quali essi oggi sono, dei sei prima, dei nove e dei dieci oggi, e domani magari aggiungendo la Spagna e il Portogallo, dimenticando che all’interno della Spagna e del Portogallo esistono etnie e realtà in fermento e in ansiosa lotta per emergere nel contesto dei popoli. Ecco perché noi sardisti sin dagli anni ’20, mentre l’Europa si andava progressivamente chiudendo all’interno delle frontiere militarmente fortificate dei singoli Stati e la geografia si arricchiva di nuove denominazioni e simboli, (quali la linea Maginot, il Vallo atlantico, eccetera) vincendo la solitudine della nostra terra — ma una solitudine fervida e creativa — diffondevamo un messaggio di speranza che si definisce in una precisa proposta politica: la confederazione degli Stati europei. Presupposto del suo realizzarsi è, però, il superamento degli Stati nazionali, che debbono cedere il passo alle regioni storiche che oggi li costituiscono, ed in particolare alle etnie che sono inglobate all’interno dei rispettivi confini.
L’Europa deve essere costituita dai popoli. Gli Stati hanno dimostrato la loro debolezza, l’intrinseca incapacità di mediare e di comporre le tradizionali conflittualità che da sempre li dividono. La conferenza di Atene non è un episodio, ma la coerente manifestazione di una logica politica che non è mutata nel tempo, ma solo ricondotta entro norme e modelli di comportamento che hanno il pregio di attenuare le tensioni, senza però superarle. Sono meccanismi che si conservano, in tutta la forza disgregante, ancora presenti ed attivi negli ordinamenti e nelle istituzioni statali.
Per queste considerazioni, condividiamo l’impostazione di fondo del progetto di trattato istitutivo dell’Unione europea, destinato al giudizio dei parlamenti più che ai governi degli Stati. Certo, anche i parlamenti (è bene non alimentare in questo senso soverchie illusioni) obbediscono alla logica degli Stati ed alle vocazioni involutive di questi; ma, tutto sommato sono, rispetto ai governi, più rappresentativi dei popoli, e perciò espressione più immediata e democratica delle realtà diverse nelle quali si articola ogni singolo Stato.
Perché l’europeismo che oggi esaltiamo quale valore da assumere per la costruzione di uno Stato supernazionale non si esaurisca in un ritualismo di facciata, il Parlamento deve assumere iniziative concretamente innovative, volte a dare attuazione alle prospettive di reale integrazione dei popoli, fornendo a questi i necessari strumenti per diventare soggetti di pieno diritto, protagonisti attivi nella costruzione della comune patria europea. Strumento essenziale per il realizzarsi di un tale obiettivo è indubbiamente la legge elettorale. Quella oggi vigente, approvata nel 1979, non si ispira certamente ad una tale finalità, ma si limita ad offrire ai partiti politici una sede di confronto e magari di incontro a livello europeo.
I socialisti vanno ad incontrarsi con i colleghi di Francia, di Germania, di Grecia, di Inghilterra, e così i democristiani, i comunisti, i liberali, i repubblicani, i socialdemocratici, i «missini». Ma una tale logica, che ripete la gerarchia dei modelli statuali di rispettiva provenienza, non crea l’Europa. L’Europa risulta così costituita dalla sommatoria dei mali profondi che caratterizzano e condizionano la politica dei rispettivi governi, secondo schemi di maggioranza e di opposizione, dando vita ad ordinamenti suscettibili di tagliar fuori i popoli con le loro problematiche complesse, varie, multiformi, difficilmente riconducibili alle tradizionali formule di schieramento.
All’interno degli Stati sono presenti realtà etniche che ancora conservano e strenuamente difendono un patrimonio di cultura che le rende uniche ed irripetibili nella storia della civiltà umana: tradizioni, usi, costumi che non si esauriscono nel folklore, ma si nobilitano, come nei sardi, in forza di una cultura e di una lingua loro propria, che è unica nel mondo latino e che conferisce ad essi identità di popolo. E i sardi, come domani i catalani, i bretoni o gli alsaziani, hanno diritto di intervenire come tali, nell’Europa che andiamo costruendo.
Diffidiamo dell’appiattimento in rappresentanze falsamente unitarie, che si impongono in nome di un patriottismo ipocrita e di maniera. Quell’unità è solo prevaricazione e disumana distruzione di irripetibili valori che oggi allargano gli orizzonti dello spirito ed offrono alla umanità tutta la multiforme ricchezza di culture originali e diverse.
Lasciamo che i popoli si esprimano in libertà e crescano sulle proprie radici, sì da sviluppare in essi la forza creativa che è nelle loro peculiari caratteristiche. Non l’Europa degli Stati, quindi, non l’Europa dei partiti (che devono ovviamente svolgere un ruolo di confronto e di costruzione democratica), ma l’Europa dei popoli, di tutti i popoli. Questi non possono essere valutati soltanto in virtù del loro peso numerico, ma devono essere accettati per il contributo di civiltà che sono in grado di offrire. Noi crediamo che l’Europa degli Stati non saprà uscire dalla logica del mercato (e ieri, così come oggi, ne abbiamo avuto ripetute dimostrazioni). Non è difficile però intuire come siffatta aggregazione, costituita da Stati che sul piano della potenza militare sono considerati di serie B, voglia scrollarsi di dosso un ruolo considerato subalterno e, anziché impegnarsi in una vigorosa politica di pace volta al superamento dei blocchi contrapposti, presuma di sé tanto da assumere essa stessa il ruolo di terza potenza mondiale, capace di una forza deterrente propria, contribuendo così ad aggravare nella spirale del terrore i fattori di destabilizzazione e di grave pericolo per tutta l’umanità. Il discorso dell’onorevole Tremaglia, stamane, non lascia in materia adito ad alcun dubbio. Né si deve dimenticare che due Stati europei sono già in possesso, oltre che delle tecniche, delle riserve di armi nucleari proprie. Ed è naturale che così sia, posto che le vocazioni involutive, intrinseche al modello europeo intergovernativo, conducono necessariamente a questo tipo di politica. La molteplicità delle realtà regionali ed etniche d’Europa garantisce, per contro, uno sviluppo orizzontale del potere, cui è estranea la politica di potenza, congeniale — invece — a quella dei vertici. Non a caso gli schieramenti di destra contrastano pervicacemente la politica regionalistica e delle etnie, che per loro natura realizzano la democrazia di base.
Nel concludere questo mio intervento — mi consentano i colleghi — il pensiero si volge ai milioni di emigrati che da tutti i «Sud» d’Europa sono andati ad arricchire, con il loro lavoro, i diversi «Nord» dei vari Stati, Italia compresa. Oggi questi sono in realtà cittadini senza diritti civili, né politici. Non possono di fatto votare e far sentire il peso dei loro problemi nei paesi d’origine, perché non sono in grado di rientrare in patria per assolvere al dovere civile del voto, e ne sono esclusi di diritto nei paesi di residenza, per i quali spendono la loro quotidiana fatica e dove favoriscono lo sviluppo economico ed il civile progresso.
Oggi l’Europa si serve degli emigrati per le diverse utilità che offrono: l’apporto di divisa estera ai paesi d’origine, lavoro e subalternità a quelli di residenza. Ebbene noi sardisti inviamo, la nostra solidarietà certo anzitutto ai nostri conterranei sardi, ma anche, da questa Camera, a tutte le genti che pagano tale amaro prezzo per la costruzione della moderna Europa, e diciamo che il nostro voto favorevole vuole avere il significato di un gesto concreto che vada in direzione del riscatto civile e politico di questi cittadini, che sono costretti ad una emarginazione tanto iniqua quanto inaccettabile.
Un’organica politica volta a rendere giustizia agli emigrati, favorendo il loro ritorno nei paesi d’origine o consentendo il loro inserimento — ove lo vogliano — in quelli di residenza, con uguaglianza e pienezza di diritti, al pari dei nativi, aiuterà gli stati componenti l’unione ad affrontare ed a superare in modo corretto gli scompensi che sul piano dello sviluppo, della concentrazione demografica, occupazionale e del reddito, contrassegnano i rapporti fra le regioni più ricche e quelle che, con un eufemismo, vengono definite le meno favorite.
Certo, il progetto di trattato non esaurisce le aspettative del partito sardo d’azione ed il nostro voto favorevole rappresenta, sul piano politico, ben più un auspicio che un consenso. In tale prospettiva, mi sia consentito esprimere il voto che a costituire la seconda Camera, oltre quella delle rappresentanze governative costituenti il Consiglio europeo, siano chiamate le regioni, quale istituzione realmente rappresentativa dei popoli, forza di una moderna e giovane democrazia, finalmente liberata dall’anchilosi conservatrice di archetipi statuali non più rappresentativi del fervido rinnovarsi dei popoli (Applausi).