Federalismo sardista

Proposta sardista – Federalismo Sardista (ottobre 1995)

Per capire la genesi ed i traguardi ideali del federalismo sardista è bene tornare alle motivazioni che hanno ispirato i Padri fondatori.
Erano giovani contadini, pastori, operai, intellettuali che, raccolti in unità combattenti di soli sardi avevano vissuto assieme la terribile esperienza della guerra 1915-18.
Avevano capito due cose fondamentali: la Sardegna rispetto alle regioni del nord Italia – di cui gran parte di loro prendeva collettivamente coscienza per la prima volta – era non solo profondamente arretrata ma una realtà del tutto diversa per economia, cultura, usi, tradizioni e valori spirituali e civili.
Capirono altresì che la guerra nella quale erano stati sacrificati molte migliaia di loro conterranei era stata scatenata per lo scontro di interessi fra magnati dell’economia europea cui erano estranei le grandi masse popolari, che, pur desiderose di pace e solidarietà ne erano state coinvolte ed, in larga misura, sterminate.
Capirono i sardi di allora che l’arretratezza e la diversità erano fatti politici che chiedevano soluzioni politiche, che individuarono nell’autogoverno autonomo dei sardi, non contrapposto ma unito con patto federale alle altre realtà italiane.
L’alto significato della loro istituzione lo si coglie laddove si consideri che il regionalismo non si esauriva nell’elaborare un modello costituzionale di Stato più garantista ed efficiente, ma nel trasformare i sardi da sudditi, subalterni, non più chiusi nella solitudine della loro storica emarginazione, diventando protagonisti attivi di una solidarietà europea che li rendeva cittadini del mondo.
Un’intuizione la loro che supera la contraddizione dei fermenti nazionalistici, trasformatisi in quegli anni in feroci dittature e che, diventerà pagina di storia dopo oltre mezzo secolo con la sconfitta, da un lato delle chiusure nazionalistiche e, dall’atro, con l’avviarsi di una solidarietà europea che ne prefigura l’attuale Unione.
L’esplosione federalista di questi anni, fatte salve alcune apprezzabili eccezioni, assomiglia molto al confuso vociare della turba degli eterni trasformisti che strumentalmente si accodano alle bandiere che ritengono vincenti.
Non si parla di Cattaneo, Ferrari, Mazzini, Gioberti, Asproni, Tuveri ma di Bossi e di Maroni che, al di là delle autoproclamazioni di federalismo, federalisti non sono.
Direi che ne sono l’antitesi.
Non credo, per la conoscenza anche personale che ho dei protagonisti, che pensino realmente alla secessione di un’area non ben definita chiamata “Padania” della quale sembra non far parte l’Emilia Romagna, che della Padania dovrebbe far parte per ragioni sia geografiche che economiche, ma penso piuttosto che il loro obiettivo reale sia costituito dal secessionismo fiscale in virtù del quale sarebbero incamerati nel bilancio di ogni regione tutti i tributi riscossi nei rispettivi territori salvo una modestissima quota da attribuire allo Stato per l’assolvimento di alcuni compiti fondamentali quali la difesa militare del territorio nazionale, la politica estera, forse la giustizia.
In questo Stato non sarebbe prevista l’ipotesi che, pur la parte degli obiettivi essenziali dell’Unione Europea del riequilibrio economico-sociale fra le diverse aree territoriali del Paese.
Il che significa negare alla radice federalismo i cui pilastri portanti si fondano, bensì sulla larga autonomia legislativa e di governo degli Stati federati ma altresì sulla piena e feconda solidarietà fra loro.
Altra forma di falso federalismo sembra emergere fra i conservatori dell’attuale assetto centralistico. Non potendosi sottrarre al coro generale, facendo appello a presunte tradizioni politiche della storia italiana che dicono municipale, ritengono che il moderno federalismo italiano debba trovare nei Comuni i soggetti attivi sui quali fondare il nuovo modello di Stato.
La ragione è molto semplice posto che è impensabile conferire a tutti i Comuni potere legislativo, né limitarlo ai Comuni capoluogo, per l’evidente squilibrio che ne deriverebbe con la miriade degli altri, tale potere resterebbe ancorato agli organi centrali dello Stato, Parlamento, Governo, Presidente della Repubblica.
La verità è che gli Stati federali si avvalgono della partecipazione attiva di tutti i cittadini organizzati in istituzioni, rappresentative di comunità più o meno grandi, unite da comunità di interessi, di esperienze storiche, tradizioni, cultura, usi e costumi e, talvolta, lingua.
Valori questi che li fanno unici, diversi ed irripetibili nel contesto territoriale ed umano di loro insediamento.
E queste entità territoriali sono bene identificate tanto negli Stati federali ove prendono nome di Lànders, States, Cantoni e così via, che negli Stati che federali non sono dove pure esistono e sono fra loro ben distinte.
Nessuno in Italia oserebbe confondere Veneto e Lombardia, Piemonte o Calabria, così come i Bretoni non sono Alsaziani né i Corsi, Provenzali, per non parlare fra Galles e Scozia, Londinesi o Nord Irlandesi.
A creare ulteriore ambiguità concorrono anche i fautori del federalismo presidenzialista o parlamentare. Pur rilevante  questo non è certo l’aspetto fondamentale del federalismo perché il presidenzialismo non equilibrato da un forte ruolo parlamentare ma soprattutto da una vasta autonomia degli Stati federati sarebbe ne più ne meno che la dittatura del Presidente.
Mi convinco sempre di più della grande saggezza dei Padri fondatori del sardismo i quali ci hanno insegnato che federalismo è tale solo se si alimenta dei valori di libertà, responsabilità e solidarietà.
Per loro la più ampia libertà di autogoverno significava l’assunzione di responsabilità nella gestione delle risorse mirate allo sviluppo sociale e civile della comunità del cui possibile insuccesso non si potevano più chiamare responsabili i poteri del Principe ma se stessi; tutto questo in un quadro di reciproca solidarietà. Le singole comunità concorrono a realizzare la forza che diventa all’occorrenza la forza di ciascuno.
A garantire, sul piano costituzionale, i capisaldi politici del federalismo ce lo insegna l’esperienza storica. Accanto ad una Camera proporzionalmente rappresentativa dei cittadini se ne costituisce una seconda paritetica rappresentativa delle istituzioni federate.
L’insieme delle due Camere costituisce il Parlamento Federale al quale è affidato il compito di elaborare leggi, programmi ed indirizzi cui gli Stati federati dovranno confermare la propria azione legislativa e di governo.
In questo quadro è difficile che insorgano rilevanti conflitti tra il potere federale e quelli federati, posto che al definirsi delle gradi decisioni assunte dal primo, concorrono, in uno dei rami del Parlamento, da protagonisti, i secondi.
Ma per ipotesi che su particolari problemi possano insorgere conflitti fra potere centrale e quello di uno o più Stati, si prevede l’istituzione di un Tribunale i cui membri vengono pariteticamente eletti dal potere federale e da quello delle istituzioni federate.
Si realizza così il pieno equilibrio delle forze che rende impossibile sopraffazioni, privilegi e comunque ingiustizie che, pur esaltando il valore delle diversità, ne consolida l’unità fondata sul consenso base essenziale di ogni libertà democratica.
Essi erano regionalisti ed europeisti insieme; la loro visione dello Stato prefigurava l’Europa dei popoli, cioè di quelle entità territoriali che noi chiamiamo Regioni, i tedeschi Landers, gli svizzeri Cantoni, e così via.
A fondamento della svolta costituzionale evocavano l’inalienabile diritto di libertà strettamente connesso al concetto di responsabilità nel governo delle rispettive realtà territoriali in rapporto di feconda solidarietà.
Avevano colto, pur in presenza di manifesti segnali d’involuzione centralistica e dittatoriale degli Stati Europei, il senso della storia, prefigurandone gli eventi che si sarebbero verificati dopo oltre mezzo secolo: regionalismo federalista nel contesto dell’Europa dei popoli quale definito, quanto meno come auspicio, dal Trattato di Maastricht.
Capirono che il sottosviluppo sardo, non dipendeva tanto dal malvolere dei governi centrali, quanto dall’organizzazione istituzionale del potere collocato ai vertici dello Stato e, come tale, sensibile agli interessi prevalenti e dominanti nella vita della comunità nazionale.
In tale contesto gli interessi delle aree, come dei settori economicamente deboli, erano ineluttabilmente penalizzati o più semplicemente, ignorati generando conseguenze sociali devastanti.
Il loro regionalismo non si pose quindi in antitesi, in frontale contrapposizione verso le altre regioni ma si fece assertore di una nuova e ben diversa organizzazione del potere, che, dai vertici dello Stato, doveva tornare al popolo e quindi alle sue istituzioni di base.
Si individuò nella Regione l’istituto di governo, dotato di propria sovranità, in grado di esprimere tutti i valori presenti nelle realtà territoriali che, nel reciproco rispetto delle diversità, avrebbero dato vita alla statualità federale fondata sul potenziale creativo, largamente per l’innanzi inespresso, secondo generalità creative originali, specifiche e peculiari. Un potere che fiorisce dal basso, che si alimenta di consenso e fa delle popolazioni le protagoniste attive di una nuova democrazia progressista.
L’esplosione dell’odierno federalismo è ben altra cosa.
Mentre quello sardista tendeva ad unire le popolazioni italiane, cancellando le prevaricanti diseguaglianze nel respiro di una forte solidarietà europea, oggi, nel nome del federalismo, le regioni ricche, dopo averle sfruttate, vogliono separarsi dalle povere, mentre queste ultime sembrano rassegnarsi all’assistenzialismo mistificato con le vesti della solidarietà.
Siamo lontani anni luce dalla forza propositiva e rivoluzionaria, non solo del federalismo sardista, ma di qualsiasi versione di questo.
Oggi in Italia si sente parlare di presidenzialismo ipotizzando un Capo dello Stato che decide e comanda dalla solitudine di un vertice incontrastabile in virtù del voto popolare, dimenticando che questo avviene solo negli stati sudamericani non certo negli stati nordamericani ove il potere del presidente, nel quale si assommano le cariche di Capo dello Stato e del Governo, è bilanciato dal forte ruolo del Parlamento (specie del Senato) ma soprattutto dai vasti spazi di autonomia costituzionalmente previsti nella competenza dei singoli Stati in tutti i settori della vita pubblica ad eccezione della difesa, della moneta e della politica internazionale.
Va comunque sottolineato il senso di diffusa insofferenza che parte della stragrande maggioranza dei cittadini verso l’attuale organizzazione del potere all’interno di una statualità gerarchizzata e centralistica, conchiusa nei ristretti ambienti di vertici incontrollabili dalla istituzioni democratiche.
Gli abusi e le collusioni emersi nel corso delle indagini giudiziarie emblematicamente denunziati a Milano, Palermo e Napoli, ma scandalosamente praticati su tutto il territorio italiano denunciano, ben al di là delle responsabilità individuali, l’inefficienza del sistema istituzionale.
Di qui l’esigenza di cambiarlo.
La risposta del secessionismo leghista, lungamente mistificata da istanza federalista, ha indotto le forze politiche ad impugnarne la bandiera per guadagnare il consenso elettorale più che scongiurarne l’improbabile pericolo separatista.
In verità tutto questo battage appare mirato al cosiddetto federalismo fiscale che, ridotto nella sua attuazione pratica, significa trattenere e reinvestire nelle regioni la maggior somma del tributo fiscale, esatto nell’area del proprio territorio, riservandone una quota minima al potere federale per spese di carattere generale quali difesa, politica estera, giustizia e poche altre competenze. Verrebbe così cancellato il cemento che dà significato politico e valenza di civiltà al federalismo: la solidarietà.
Noi sardisti siamo lontani da questa concezione pur ritenendo che la Sardegna sviluppando vigorosamente l’economia marittima che le è congeniale in virtù della sua centralità mediterranea, in uno ad una politica fiscale coerente a tali scelte, sia in grado di rompere la vischiosa prigionia dell’assistenzialismo per diventare importante protagonista dell’economia intercontinentale, fra i paesi rivieraschi del Mediterraneo.
Ci siamo battuti e siamo sempre impegnati per un’Italia federale riequilibrata e forte della sua sostanziale unità operante fra le regioni che la costituiscono in un quadro di riferimenti internazionali che ci faccia cittadini del mondo.
Contestiamo i vari federalismi di facciata privi di reali contenuti o che tendono a perpetuare il centralismo fingendo di spostare l’asse del potere a favore dei comuni ed a danno delle regioni in virtù delle cosiddette tradizioni municipali italiane e ciò per due motivi:
1°) ai comuni non potrebbero essere riservati che compiti amministrativi ed attuati nell’ambito dei rispettivi territori, mentre quelli legislativi, della programmazione nazionale nei vasti campi dell’economia e dei rapporti con l’Europa, continuerebbero ad essere gestiti dai poteri centrali, così come oggi -Capo dello Stato – Governo – Parlamento;
2°) è falso che la tradizione italiana sia solo municipale.
In effetti i Comuni cui si fa riferimento nella storia italiana, specie quella rinascimentale, non esaurivano la loro sovranità entro le mura cittadine ma avevano valenza regionale.
Così erano le Repubbliche Marinare, La Signoria, i grandi Comuni del centro – nord – Italia, mentre nel sud e nelle isole operavano i Regni aventi valore di statualità, dotati di sovranità.
Nel concludere: il profilo  istituzionale dello Stato federale, tanto di tipo
presidenziale che parlamentare, deve precedere le istituzioni regionali come tali,
pariteticamente presenti m una delle due Camere, perchè possano partecipare ai
dibattiti preparatori e quindi al definirsi della volontà legislativa, dando il contributo determinante del proprio consenso o del suo dissenso critico.
A giudicare dei possibili conflitti di competenza fra il potere federale e quello delle regioni federate, dovrà essere chiamata una Corte Costituzionale profondamente rinnovata nei suoi componenti, riservando l’elezione di metà dei suoi rappresentanti al potere centrale e l’altra metà, come accade in America, in Germania, in Belgio, in Danimarca per i suoi rapporti con le isole e nella Svizzera, dai poteri federati.
Lo Stato nella ripartizione delle risorse finanziarie dovrà mirare ad assicurare i servizi essenziali in misura eguale per tutti i cittadini avendo come obiettivo finale il riequilibrio economico-sociale fra le diverse aree del Paese.
Finirebbe così il rituale piagnisteo delle regioni povere in costante protesta senza altra speranza se non quella di ottenere qualche stanziamento aggiuntivo perché, forti di un potere che amplia la sfera di libertà ma altresì della responsabilità, potranno promuovere la crescita sociale e civile della propria gente nella consapevolezza di non essere né soli, né subalterni ma partecipi di un più vasto impegno che li fa cittadini del mondo.
Ecco i grandi pilastri del nostro credo federalista: libertà, responsabilità e solidarietà.