Crisi del Regionalismo – Convegno conclusivo dell’indagine conoscitiva sulle Regioni – Roma 22 gennaio 1985

Convegno conclusivo dell’indagine conoscitiva sulle Regioni effettuata
dalla Commissione bicamerale presieduta dal Senatore Armando Cossutta

L’indagine conoscitiva svolta della Commissione bicamerale per le questioni regionali, offre l’opportunità di formulare valutazioni puntuali sulla coerenza fra lo Stato delle autonomie, quale si è andato realizzando negli anni, ed il suo disegno costituzionale La ratio originaria di questo trova genesi nei fondamentali principi che regolano la ripartizione e l’esercizio del potere politico: autonomia, pluralismo istituzionale e diffusione territoriale delle principali funzioni pubbliche.
La crisi del regionalismo va perciò ricercata proprio nella mancata attuazione di tali principi.
Le Regioni sono, di fatto, estranee, a qualsivoglia forma partecipativa e concorsuale rispetto all’assetto del potere centrale, nei confronti del quale hanno progressivamente assunto il ruolo subalterno che non di rado si svolge in forme duramente contestative e conflittuali.
Gli attentati all’autonomia regionale possono così sinteticamente riassumersi:
a) Le funzioni amministrative sono state costantemente trasferite dallo Stato in modo disorganico e settoriale;
b) il potere centrale opera continue invasioni delle competenze regionali, pur statutariamente definite, mediante il surrettizio ricorso a leggi ordinarie aventi solo il nomen juris della riforma economico-sociale, ma sostanzialmente indirizzate ad espropriare il potere autonomistico di reale capacita di governo;
c) il ricorso alla creazione di numerosi ed importanti enti settoriali, con compiti di intervento così da disarticolare ed affievolire la capacità complessiva del potere regionale;
d) la giurisprudenza della Corte Costituzionale rivelatasi nei conflitti di competenze, nei lunghi anni dell’esperienza delle Regioni a statuto speciale e nell’avvio di quelle ordinarie, sempre meno giudice e sempre più articolazione politica del potere centrale che la elegge.
Si è così delineata l’intima contraddizione che caratterizza oggi lo Stato; un sistema di poteri orizzontalmente organizzati su base regionale, inserito nella preesistente struttura rigidamente verticistica e centralizzata.
Da questa evidente incoerenza istituzionale è derivata l’assurda antinomia fra governo centrale e potere autonomistico, quasi che il primo rappresenti in esclusiva i valori dell’unità ed integrità della patria e il secondo, per contro, un elemento destabilizzante, disgregatore, pericolosamente volto a disarticolare, per le molteplici vie della diversità, la forza creativamente operosa dell’intero Paese.
Nella frustrazione di un regionalismo incompiuto si è andata spegnendo la cultura dell’autonomia e con essa dei fermenti originali e creativi che sono connaturati alla forza vitale della democrazia di base espressa dagli enti locali; il rapporto istituzionale e così decaduto a pura conflittualità, contrapposizione sterile nella quale le Regioni più deboli hanno subito, com’è ovvio, l’impatto più devastante ed involutivo, restando chiuso in una sorta di centralismo clientelare.
Al definirsi di queste linee di tendenza hanno indubbiamente contribuito i partiti politici, attraverso la loro organizzazione centralistica, nazionalmente gerarchizzata. Appare del tutto inverosimile che dai loro comitati centrali possano emergere indicazioni che, ove attuate nello Stato, finirebbero per modificare profondamente i loro stessi assetti interni, limitando in termini significativi le capacità decisionali dei vertici.
I cittadini, di recente, in Sardegna, hanno visto delinearsi il tentativo ed il pericolo sempre più concreto che a eleggere l’esecutivo non fosse chiamato il Consiglio regionale isolano ma le segreterie romane dei partiti.
Solo la rigorosa e democratica reazione dell’opinione pubblica, senza distinzione di colore, ha scongiurato un evento che, se portato a termine, avrebbe ulteriormente mortificato il potere autonomistico screditandone la massima istituzione.
Il rilievo introduce una seria riflessione sul ruolo di indirizzo politico esercitato dalle segreterie nazionali dei partiti in ordine alla formazione dei governi regionali. Esempio emblematico di quanto tale esercizio possa travalicare gli ambiti del legittimo, per vulnerare i principi stessi della Costituzione, l’abbiamo vissuto in Sardegna, in occasione della formazione della Giunta regionale in carica.
Pur in presenza di così gravi denunzie lo stato delle autonomie dimostra la sua vitale forza democratica costituendo un punto di riferimento, sostegno e guida per le diverse realtà regionali nelle quali il Paese si realizza.
L’odierno convegno non si pone quale sede propositiva di riforme costituzionali, non di meno, pur convenendo sulle opportunità di ricercare una sede istituzionalmente autorevole ed organizzativamente democratica, per creare momenti di raccordo fra i poteri centrali dello Stato (Parlamento-governo) e quelli regionali, tuttavia non si può eludere l’esigenza di coinvolgere questi ultimi nel processo formativo della volontà legislativa e delle grandi scelte dello Stato in materia di programmazione e ripartizione delle risorse.
La via maestra, che al momento può sembrare di difficile attuazione, appare certo l’istituzione di una Camera pariteticamente rappresentativa delle regioni, nonché la modifica della Corte Costituzionale integrata con rappresentanti regionali. Concordiamo perciò sulla opportunità del potenziamento, attraverso chiare leggi di procedura, degli istituti che prevedono l’incontro di volontà fra Stato e regioni.
Contestualmente si impone l’esigenza di procedere alla soppressione dei ministeri le cui funzioni sono state trasferite alle Regioni o quanto meno alla loro riforma. Desta non poche perplessità invero, l’ipotesi di riservare a questi compiti di promozione, programmazione e coordinamento, laddove la loro specializzazione e professionalità si è sempre esercitata ed esaurita nella gestione. E questa si attiva sempre frequentemente determinando continue interferenze, l’accavallarsi di provvedimenti, o peggio, rifiuti di necessarie collaborazioni, dai quali derivano situazioni incompatibili per l’ordinario governo della società, discredito delle istituzioni, insicurezza e tensione nell’opinione pubblica. Si deve dare atto che tali iniziative trovano spesso genesi nelle strutture burocratiche fervidamente impegnate a conservare se stesse, ma più spesso obbediscono a logiche ed atti di governo volti a recuperare spazi politici che Costituzione e statuti riconoscono di esclusiva competenza regionale
A questo punto, come altri hanno autorevolmente fatto in questo convegno, giova chiedersi: regionalismo perché?
La nostra risposta è molto precisa: il regionalismo si realizza nell’autonomia, e questa è insieme fonte di democrazia e responsabilità, requisiti essenziali del moderno concetto di libertà.
Questo non è uno spazio vuoto nel quale un popolo si aggira senza traguardi, ma una condizione essenziale per costruire i propri assetti civili, le strutture economiche, le elaborazioni culturali ed etiche che nel loro insieme, con lo sviluppo, danno vita ad una civiltà.
L’autonomia deve quindi arricchirsi dei necessari requisiti capaci di consentire il governo dell’economia attraverso un’incisiva azione di coordinamento dei soggetti. In tale contesto il potere impositivo tributario regionale non deve porsi in termini aggiuntivi, ma sostitutivi o quanto meno correttivi, rispetto a quello centrale, in considerazione dell’esigenza di far uso differenziato dello strumento fiscale in relazione al diverso grado di sviluppo delle regioni, sì da scoraggiare attività che, valide in certe realtà, si dimostrano speculative e parassitarie in altre, promuovendo e incentivando per contro imprenditorialità ora agricole, ora industriali, turistiche e commerciali in relazione alle domande di mercato ed alle opportunità che questo offre in concreto.
L’uguaglianza tributaria, intesa quale meccanica applicazione su tutto il territorio nazionale degli stessi tributi, si traduce di fatto nella più iniqua e devastante ingiustizia fiscale (la storia italiana è in proposito illuminante). In coerenza con tale premessa deve trovare corretta definizione l’intero sistema della finanza regionale sì da garantire la certezza delle risorse finanziarie liberate dall’aberrante vincolo di destinazione che, già per sé, svuota di ogni reale capacità di governo l’istituto autonomistico.
Un ruolo sempre più incisivo del potere regionale sul controllo del credito e del risparmio appare essenziale non solo al fine di garantire il governo globale dell’economia, ma altresì la rottura della logica in virtù della quale il capitale viene drenato dalle regioni povere in quelle ricche a causa del più elevato indice di rischio, innescando così il meccanismo perverso per cui all’ulteriore sviluppo delle regioni ricche corrisponde l’aggravarsi del sottosviluppo di quelle povere.
L’esigenza di un forte coordinamento con la programmazione regionale si avverte come non più procrastinabile in relazione all’attività di enti ed aziende finanziati dal pubblico erario, onde evitare l’odierno scoordinamento che spesso rende incoerente e talvolta conflittuale, con rovinosa dissipazione di risorse, l’azione di governo nel territorio regionale.
Questo rilievo introduce il tema della specialità in relazione alla quale molto opportunamente è stato osservato come la legittimazione politica delle regioni a statuto speciale non può esaurirsi con la motivazione di esigenze di autonomia proprie delle altre regioni del Paese ma va ricercata in peculiarità particolari e specifiche, fra loro diverse, di per sé irripetibili e come tali non assimilabili né estensibili ad altre realtà.
Se le peculiarità esigono infatti un più elevato momento di autogoverno, esse stesse hanno scarsa possibilità di sopravvivere in un sistema di articolazione dello Stato in cui i momenti centralistici prendono molte volte il sopravvento sui momenti autonomistici, che altro non sono che la nobile espressione di un sistema democratico fondato sul pluralismo delle componenti istituzionali e sociali.
Le nostre specialità, del resto, trovano articolazioni e problematiche molto differenti: alcune hanno infatti modelli di sviluppo economico-sociale tra i più elevati del Paese, mentre altre risentono ancora di forti condizionamenti di sottosviluppo, in modo che i problemi, che hanno rilevanza strategica per le une sono molto labili o addirittura insignificanti per altre; per esempio: se le specialità non debbano certo contribuire a dividere i cittadini italiani di fronte a servizi socialmente utili e rilevanti, privilegiando quelli di un’area rispetto a quello di un’altra, è tanto pur vero che le stesse specialità debbono avere tutti quegli strumenti di governo che possano dare una seria risposta a problemi particolari.
Le peculiarità si attenuano e si spengono come fatto di governo se su di esse prevale il momento centralistico opprimendo un sistema pluralistico fondato sulle diversità.
Le specialità rispecchiano situazioni profondamente differenti con riflessi che coinvolgono i più diversi ambiti: da quello dello sviluppo (dinamico e forte per taluni, stagnante e debole per altri) sì da impedire il formarsi di strategie unitarie per fronteggiare gli stessi problemi. Non di meno la specialità non può giustificare la “dispar condicio” nella fruizione di servizi socialmente utili.
Non è infatti giustificabile la situazione attuale, per cui i cittadini della mia Regione, pagano una penalizzazione per la loro condizione geografica di insularità, senza che l’istituto regionale abbia alcuno strumento istituzionale, seppur minimo, per poter incidere su tutti quei centri decisionali da cui dovrebbe già essere, da molti anni, venuta qualche valida risposta verso la soluzione di questo nodo drammatico per l’Isola.
Queste “diversità” non si pongono in antitesi a quale componente deviante e dispersiva del moto unitario dello Stato ma lo arricchiscono di contributi originali, creativi e fecondi di cultura, tradizione, esperienze storiche diverse.
Concordiamo perciò con le indicazioni emerse dagli atti della Commissione Cossutta, in ordine all’esigenza di accompagnare all’innalzarsi del livello di autonomia delle Regioni a statuto ordinario un ampliarsi della sfera di competenza di quelle speciali, sì da rendere più incisivo il loro operare scongiurando così fenomeni di appiattimento che, lungi dall’offrire maggiore coerenza all’azione dei poteri centrali, creano solo fattori negativi caratterizzati ora da focolai di resistenza duramente contestativa, ora da sacche di rassegnazione passiva nelle quali si spegne ogni empito di democrazia; in tale contesto il dibattito ed il confronto decadono a vuoto ritualismo.
Nell’uno come nell’altra però l’equilibrio dei poteri è affidato al precario di una condizione che vede il potere autonomistico impegnato nel riappropriarsi degli spazi che gli sono propri.
Scatterà così per i difensori del centralismo più ottuso ed oppressivo il momento di correre in difesa della patria minacciata ed inventarsi un separatismo di comodo spregiudicatamente utilizzato per coprire gli spazi di un antico potere incrostato nelle vecchie strutture dello Stato centralista per negare, magari con la violenza della repressione, quei fermenti di libertà e di vigorosa democrazia che si istituzionalizzano nel realizzarsi del naturale diritto all’autogoverno.
Questo non è separatismo ma attuazione della Costituzione; il suo contrario si chiama repressione.
Nel concludere queste brevi riflessioni, io, che sono un convinto assertore del regionalismo e vedo in prospettiva un ruolo sempre più preciso dell’istituto regionale nei rapporti internazionali (che la più moderna dottrina distingue da quelli di diritto internazionale), osservo che l’Europa è oggi alla ricerca di una nuova, più forte e ricca identità; quella dei popoli che nel loro fervido e creativo rinnovarsi vanno ricercando, attraverso più ampie aggregazioni, frontiere più avanzate di democrazia.
Un forte regionalismo italiano si porrà certo quale punto di civile riferimento e vigoroso contributo al formarsi di quell’unità politica europea che sarà valida e vitale solo se fondata sul consenso delle diversità e non sul conformismo dell’appiattimento imposto da inaccettabili vertici di un centralismo superato dalla storia.