“È la fine dei partiti” La Nuova Sardegna 21 luglio 1993

La crisi della politica, la riforma della politica. Anche se in ritardo rispetto al resto del Paese, un nuovo confronto inizia ad emergere anche in Sardegna. Apriamo un dibattito con questo intervento del leader sardista Mario Melis, eurodeputato a Strasburgo.

La grave crisi che ha investito i partiti politici impone una seria riflessione sulle cause che ne sono all’origine. Crisi complessa e molteplice per i valori che coinvolge e le conseguenze che determina. Il momento più eclatante, la radicata e diffusa corruzione che va sotto il nome di Tangentopoli, ne è solo un aspetto che va peraltro considerato più conseguenza che causa della crisi. All’interno di questa emergono inquietudini e contraddizioni, quali la crisi della sinistra, per anni imprigionata – nella sua componente maggiore – in un fideismo ideologico comunista che ne ha fatto un corpo separato della democrazia italiana. Le altre componenti (socialisti e socialdemocratici) muovendo da tradizioni politico-culturali ancorate a principi cardine di libertà, hanno perduto, col trascorrere del tempo, smalto e principi per adagiarsi nell’inerzia di un potere gestito in prevalente funzione elettorale e sempre meno del cambiamento.
In questo contesto la destra moderata rappresentata dalla Dc, pur avendo acquisito in fase costituente – e ancora per anni successivi – insieme alle forze dell’arco democratico, significativi risultati, soprattutto nel campo dello sviluppo economico, non più stimolata dalle sinistre di governo e sostanzialmente contrapposta in termini di formale antiteticità alla componente comunista, si è rifugiata nel trasformismo sistematico assorbendo spinte e istanze popolari nel ventre molle di istituzioni sempre più impegnate a conservare se stesse. La vocazione conservatrice si è rapidamente imposta come pratica di governo e ben poco ha potuto anche il generoso esperimento dei governi di unità nazione: assorbiti e metabolizzati dalla destra mercantile. Di fatto l’intesa fra le forze politiche è andata saldandosi quasi esclusivamente in accordi “contro” l’emergere devastante del terrorismo, contro le forze impegnate sul fronte della riforma dello Stato da central-burocratico in regional-democratico. Le forze autonomiste sono stare mistificate (un’ironia) dalla sinistra, quale espressione della conservazione, dalla destra quale braccio politico dell’eversione separatista.
In questo clima da città assediata, si è insinuata la prassi del potere per il potere. Le assemblee rappresentative, dalle Camere parlamentari ai consigli comunali, sono state espropriate di reali capacità decisionali, trasferite – pari pari – nel chiuso delle segreterie di partito.
Il resto è storia nota. Passati dall’ideologia al potere, dal potere alla bottega, i partiti, sia pure con intensità e diffusione diverse, sono sprofondati nella pratica torbida della corruzione e della concussione. Un dilagare sporco che ha inceppato le dinamiche operative dello Stato ma soprattutto ne ha offeso la dignità, il ruolo guida, la certezza del diritto. A pagare i costi della crisi sono stati i più deboli, singoli e comunità.
A questo punto da sardi dobbiamo chiederci: che fare?
Non sappiamo se anche da noi ci sono stati e stiano piccoli o grandi ladri infiltrati nell’apparato pubblico. Salvo alcuni episodi non si è scoperta la lebbra che si è diffusa altrove, ma i danni della non politica sono altrettanto gravi ed evidenti. La Regione è arretrata in tutti i settori. I poteri autonomistici si vanno inaridendo e svuotando di significato e contenuto: l’economia registra lo smantellamento dell’apparato industriale pubblico, arretra l’agricoltura, non cresce i terziario, avanza la disoccupazione e l’indebitamento del sistema economico è appesantito dallo scompensato rapporto export-import.
La cultura, pur in presenza di un risveglio dell’identità sarda, stenta a ottenere riconoscimento da un Consiglio regionale pavido ancora condizionato dalla politica intellettuale autocolonialista.
Nessun partito si è salvato: ovunque si è diffusa la febbre delle gelosie, delle contrapposizioni, della lotta per bande. Ben difficile risanare la politica attraverso “questi” partiti. L’opinione pubblica oppone alla politica una crescente diffidenza che sconfina nella ripulsa. Purtroppo la politica s’identifica con i partiti e questi con il partitismo.
È nostro compito quindi recuperare alla politica i suoi valori reali, la forza aggregante della solidarietà per realizzare, nel confronto aperto delle parti, i grandi traguardi nei quali si definiscono sviluppo economico, equilibri sociali, protagonismo e sovranità popolare. Dobbiamo quindi compiere tutti atto di profonda umiltà: uscire dalle strettoie degli apparati politici non certo per rinnegare le rispettive patrie ideologiche ma per esaltarle dando vita a un vasto fervido movimento di popolo capace di scrollarsi di dosso l’atavica rassegnazione che va riaffiorando nell’opinione pubblica delusa nelle sue aspettative più care e vitali.
Il popolo non merita, non deve e non può accettare la sconfitta. Dobbiamo restituirgli, anzitutto, la fiducia negli strumenti della politica. Solo attraverso la politica è possibile riprendere il cammino interrotto, definire, nell’attuale momento, nuovi traguardi.
Su quale terreno incontrarci per cogliere l’appuntamento che la storia propone a noi sardi? La proposta è semplice, inequivoca e forte: sul terreno del Federalismo che nasce dalla statualità sarda, pronta a dare il suo contributo al rifiorire di una civiltà italiana, mediterranea ed europea. Il movimento non si propone di rompere ma di unire: non accetta ripulse ma propone nuove e più credibili alleanze, all’interno delle quali ciascuno resta se stesso, in un rapporto paritario con gli altri ai quali ci si lega non in j virtù di condizionamenti politico-militari ma di solidarietà fervida, rispettosa e partecipe, capace di dar senso unitario alle diversità. Il movimento dovrà riproporre ai sardi il valore e la responsabilità dell’autonomia di governo realizzata nel recupero dell’identità del nostro popolo; diffondere attraverso il mare la libertà dei commerci internazionali; la zona franca da contrattare con la Cee come è avvenuto per le città anseatiche del Nord Atlantico e delle Isole Canarie, delle Azzorre e di Madera.
La Sardegna è chiamata ad assolvere, come nel suo lontano ma libero passato un ruolo intercontinentale,  per riprendere il dialogo interrotto dalle dominazioni esterne, non solo con i popoli d’Europa – ai quali è istituzionalmente legata – ma altresì con l’Asia Anteriore, il Nord Africa, e, con loro, alle civiltà ed alle economie d’oltre Oceano. Solo internazionalizzando la nostra economia e quindi la cultura e la civiltà dei sardi possiamo e cogliere il respiro della storia, tenerne i ritmi, assecondarne gli sviluppi. Non possiamo più essere dei «trasportati», né «oggetto» di storia ma protagonisti determinati a perseguire senza smarrimenti i grandi obiettivi del nostro futuro. Discutiamone, approfondiamo, chiariamoci obiettivi e itinerari avendo però per certo che il nostro futuro sta nell’unità, l’unità nell’indipendenza, l’indipendenza nella solidarietà.
Convochiamo la Gran Consulta Sarda. Convochiamoci in una sorta di libera Costituente. Apriamo una nuova pagina perché i nostri figli possano scriverla nella pace e nella libertà.