Sequestro di persona a scopo di estorsione – La Nuova Sardegna – 29 marzo 1999

Nei giorni di venerdì 26 e sabato 27 marzo si è svolto a Nuoro, nei locali della scuola media n. 4, un interessante convegno su un tema di ricorrente attualità: “Sequestro di persona a scopo di estorsione”; l’iniziativa è stata assunta dalla Camera penale di Nuoro e dall’Associazione “Umana ventura”.
Voglio dare atto agli avvocati Giovanna Angius, Angelo Merlini della Camera penale e al sacerdote sociologo Francesco Mariani dell’Associazione “Umana ventura” d’aver organizzato un confronto non rituale ma di grande vivace intensità, dando spazio a contributi di rilevante spessore culturale. Di particolare interesse le relazioni svolte da un gruppo di giovani universitari di scuola giuridica sassarese e del liceo scientifico di Nuoro su specifici temi che, pur scandagliando con ricchezza di dati, rigore d’indagine e intelligenza d’analisi settori diversi della tematica del convegno, hanno tracciato nel loro complesso una panoramica unitaria della piaga sociale costituita dal sequestro di persona.
Gli attesi interventi del prof. Bachisio Bandinu, dello stesso Francesco Mariani, dei magistrati Tabasso e Cicalò, dell’avvocato Mario Lai e del questore di Nuoro dott. Giacomo Deiana hanno ampliato il quadro sulla complessa tematica indagandone con particolare impegno le implicazioni sociali.
La mancata partecipazione dell’avvocato Melis Bassu, del giudice Caselli, dell’avvocato Francesco Macis e del ministro Diliberto, pur togliendo smalto al quadro generale, non hanno comunque attenuato l’interesse per i risultati di un dibattito ricco, fortemente dialettico fra tesi diverse, anche se non necessariamente contrapposte. Molto opportunamente non sono state proposte conclusioni ma solo riflessioni sui temi generali e, in particolare, sulla discussa legge del blocco dei beni del sequestrato onde impedire ai sequestratori il conseguimento del riscatto estorsivo e sull’esistenza e incidenza della cosiddetta zona grigia, costituita da quell’intenso andirivieni di amici a metà strada fra vittime e sequestratori, aventi per forza di cose l’ambigua fiducia di entrambi.
La diversità dei pareri, di per sé fisiologica, ha consentito approfondimenti e ipotesi operative che dovrebbero costituire materiale su cui lavorare in vista dei provvedimenti legislativi e amministrativi finalizzati al superamento di un problema antico, duro a morire.
Un’osservazione critica, in margine al convegno, la voglio però offrire alla riflessione dei lettori.
Il questore Deiana e altri hanno accusato “la cultura della società pastorale” d’essere fertile terreno nel quale può svilupparsi il sequestro di persona. L’assunto ha un fondo di verità perché tradizionalmente autori di sequestri erano di norma, e ancora oggi, sia pure come manovalanza, pastori o latitanti ex pastori. Il che è abbastanza naturale posto che nelle vaste solitudini delle montagne sarde non vi sono che pastori. Difficile ipotizzarvi torbidi operatori che praticano l’aggiottaggio in borsa a Milano.
Ogni società esprime con la nobiltà delle sue componenti creative di sviluppo, le ristrette minoranze che ne costituiscono la malavita criminosa.
Nel Comasco abbondavano i contrabbandieri, nelle periferie delle grandi città lenoni e spacciatori di droga, in Bolivia i coltivatori di coca, in America il gangsterismo, in Sardegna gli abigeati. Come in ogni società la grande massa è onesta, lavora, produce e dà il suo contributo al processo di crescita della collettività; una ristretta minoranza utilizza invece gli spazi offesi dall’ambiente per commettere i suoi crimini. Dalla Scandinavia al Sud Africa, dal Canada al Capo Horn. In Sardegna avevamo l’abigeato e, saltuariamente, il sequestro di persona.
Tutti colpevoli? ovviamente questo non lo sostiene nessuno. Ma la società pastorale, secondo il dire di alcuni, è responsabile, in virtù della sua cultura, di favorire i criminali perché, pur conoscendo nomi e luoghi ove questi operano, ne tacciono con la polizia chiudendosi in un omertoso silenzio.
Raramente ho sentito affermazioni così ingenerose, ingiuste e autolesioniste. Certo, i pastori che lavorano nella zona dove è stato operato ed è in atto un sequestro hanno molte opportunità di notare lo svolgersi di fatti e comportamenti incompatibili con le normali attività dell’area e, quindi, se non di sapere con certezza, di sospettare la possibile presenza di un sequestrato e dei suoi custodi.
Ci si chiede: perché non parlano, non denunziano consentendo la liberazione dell’ostaggio e la cattura dei sequestratori? Di fronte a tali interrogativi si libera la superficialità, la sottocultura dei saccenti che parlano con addottorato sussiego della “cultura pastorale” quale momento di sostanziale indifferenza, se non di ammirata solidarietà nei confronti dei sequestratori.
Ebbene chi trancia tali giudizi è colpevole di oltraggio verso un popolo che è la prima vittima dei ricorrenti realtà di sequestro che, nella loro intrinseca, ignobile viltà e pericolosità, suscitano il legittimo allarme della società civile, la ripulsa dei potenziali operatori economici intenzionati a valorizzare opportunità di loro insediamento in Sardegna e la fuga di tanti che già vi risiedono.
Il sequestro è uno sfregio che disonora e danneggia pesantemente la Sardegna e ne compromette il futuro.
Perché dunque i pastori che sanno o, comunque, sospettano non parlano? La risposta è semplice e universalmente nota: perché sono terrorizzati dalla possibile vendetta dei criminali.
E questa arriva puntuale e inesorabile a colpire che parla senza che le forze dell’ordine riescano in alcun modo ad impedirla. Non già per loro colpa o negligenza, ma per l’obiettiva organizzazione del territorio, costituito da vaste solitudini ove il pastore trascorre senza alcuna protezione, pubblica o privata, almeno trecento giorni all’anno; chi denunzia i criminali lo fa quindi a suo rischio e pericolo.
Un pericolo non potenziale, eventuale o possibile, ma concreto, crudele, devastante che spesso investe diversi componenti della famiglia dell’incauto testimone e, di norma, i suoi beni (sgarrettamento del bestiame, distruzione di oliveti, vigne e quant’altro).
I questori queste cose le sanno, come le sanno gli avvocati e, se operanti in Sardegna da un certo tempo, i giudici.
La cultura pastorale è un patrimonio del nostro popolo non una pagina di cui vergognarsi. Nel corso dell’intenso e, per tanti versi, interessante dibattito solo il sociologo Bandinu ha spezzato una lancia per affermarlo. Lo ha fatto, guardandosi bene dal dichiararsi concorde con chi aveva passato due giorni a sostenere questa tesi passionalmente, forse per non inquinare con scorie passionali la tersa dottrina del suo lucido intervento.
Sinceramente dispiace che i questori accusino degli innocenti di colpevoli omertà, essendo ben consapevoli che non sarebbe comunque possibile difenderli da sicura morte. Perché non discutere allora del come individuare strumenti e mezzi per garantire a chi parla la certezza di non essere raggiunto da simili reazioni?
Siamo qui, disponibili a continuare e sviluppare il discorso.