Ma quali sono le aree depresse? – convegno sui PIM – Porto Conte – 9 luglio 1988

 

È un’abitudine che ho contratto forse nella mia professione forense di parlare all’inpiedi, per dire poi cose estremamente modeste, semplici, quali la severità, la rilevanza dell’argomento comporta e in certa misura richiede, onde evitare di astratizzare la tematica che invece si traduce in impegni di governo, in attività operative, in risultati oggettivi da realizzare. Certo, i PIM noi li abbiamo salutati come un fatto molto positivo perché, oltre ad esprimere questo bisogno di riequilibrio all’interno della comunità europea tra le Regioni più avanti nello sviluppo e quelle rimaste in ritardo nello sviluppo sì da dare alla democrazia europea una forza unitaria che altrimenti resterebbe infranta dalle tensioni che al suo interno necessariamente verrebbero a svilupparsi per effetto di squilibri, che come tali, squilibrano l’intero assetto comunitario, oltre ad esprimere questa linea di tendenza a questa volontà politica che gli Stati membri in una visione anche di solidarietà in questa nuova comunità che viene a costituirsi per realizzarsi nei fatti, fissa anche delle forme attraverso le quali lo squilibrio viene aggredito, viene aggredito il sottosviluppo, non attraverso i settori di crisi, di debolezza, ma attraverso il coinvolgimento di tutto il sistema economico di quell’area depressa, mobilitando tutte le capacità produttive, di sviluppo, sì da utilizzare l’insieme delle sinergie che sono potenzialmente presenti in queste comunità.
Quindi la mobilitazione di tutte le linee rosse, la mobilitazione di tutti i soggetti, la individuazione dei grandi obiettivi che nel loro insieme realizzano il riequilibrio all’interno degli Stati membri e attraverso questi il riequilibrio nella comunità europea. Questi sono fattori estremamente positivi che noi, amministrazione regionale, abbiamo colto in tutta la loro rilevanza tanto che nell’elaborare i nostri progetti di Piani Integrati Mediterranei, non ci siamo fermati all’ipotesi di risorse che sarebbero potute provenire dall’Europa o dallo Stato membro, ma abbiamo affrontato il problema del sottosviluppo sardo nella sua globalità, nella sua interezza rifiutando la logica dell’intervento per singole aree, cioè dell’intervento a pelo di leopardo che individua alcune sacche di sottosviluppo; questo lo può fare l’Emilia e Romagna che è inclusa tra le Regioni aventi diritto a questo tipo di solidarietà (io non ho ancora capito con quale regione intende riequilibrarsi l’Emilia e Romagna visto che è una delle Regioni a più alto indice di sviluppo, di concentrazione industriale, di occupazione, di reddito per l’Italia e l’Europa e, quindi, del mondo; ma io non di meno poiché vi è qualche valle alpina, qualche valle appenninica che probabilmente la fabbrica non l’hanno potuta ancora ubicare perché non vi è, magari sul piano paesaggistico, o della piovosità, o dell’afa o di ragioni climatiche che non sono accettabili, quella è definita area depressa e, quindi, occorre la mobilitazione dell’Europa per dare risposte a quel sottosviluppo). Questo approccio al sottosviluppo emiliano, oppure toscano, oppure ligure, perché queste sono regioni che possono beneficiare dell’intervento dei Piani Integrati Mediterranei, questo tipo di approccio può essere possibile. Ma noi parliamo del sottosviluppo sardo. Cioè non di alcune aree di sottosviluppo del Sarrabus-Gerrei o del Sulcis o dell’Ogliastra, vere e proprie isole imprigionate da isolamenti plurimillenari in una Regione a sua volta emarginata e non solo insulare ma isolata dalle grandi correnti dello sviluppo Mediterraneo ed europeo.
Noi riteniamo che il sottosviluppo sardo vada affrontato globalmente, ci siamo posti questo problema, con questa ottica, mobilitando tutte le risorse di cui noi potevamo potenzialmente, ipoteticamente disporre, facendo il censimento della necessità, facendo il censimento degli obiettivi, creando una ipotetica programmazione e poi facendo anche, come dire, la valutazione delle diverse risorse sulle quali potevamo fare affidamento e così abbiamo tenuto presente il piano di rinascita con un intervento straordinario finalizzato alla Sardegna in virtù dell’art. 13 del nostro Statuto di autonomia e così abbiamo fatto affidamento sull’intervento straordinario della Legge 64 che dovrebbe mettere a disposizione della nostra Regione una massa di risorse adeguata al problema che siamo chiamati ad affrontare per restituire allo Stato quella unità che sino ad oggi è rimasta nella Costituzione ma che è ancora da conquistare, è ancora da realizzare, è ancora da restituire a questo Paese che si iscrive tra i cinque più industrializzati del mondo, che si iscrive tra i cinque Paesi a più avanzato sviluppo in tutto il mondo e che ha regioni come la Basilicata, come la Calabria, come la Sardegna che esprimono gli indici più elevati di disoccupazione d’Europa, in concorrenza con i Paesi del Nord Africa ed altri che invece stanno riconquistando progressivamente soglie di sviluppo che sono espressione della loro capacità, del loro impegno, della loro fede, volontà incrollabile di scuotersi di dosso il colonialismo, di scuotersi di dosso la subalternità, l’emarginazione, di inserirsi nel contesto umano e civile da protagonisti e non da sottomessi.
Ecco, anche noi ci poniamo questi problemi perché siamo consapevoli che nella sostanza l’art. 3 della Costituzione italiana lo dobbiamo ancora riempire di contenuti reali e i PIM possono essere uno strumento sul piano puramente teorico e del metodo, uno strumento valido per realizzare obiettivi di questo genere. Il problema è che quando dalla linea del tutto astratta passiamo al concreto e vediamo che alla Sardegna, per tutti i calcoli che si sono fatti, possono venire assegnati qualcosa come 40 miliardi all’anno tra … se riduciamo l’impegno ai prossimi sette anni, se riduciamo ai cinque anni che restano potremmo arrivare intorno ad una 60 di miliardi all’anno. In una previsione che mi pare che sia di arretramento sul piano quantitativo, perché con fondi infrastrutturali normalmente sfioravano o superavano di poco la soglia dei 100 miliardi all’anno con FEOGA, con FESR, con il Fondo sociale europeo, con tutte le iniziative che fervidamente vengono espresse dalla nostra comunità, dai nostri Comuni, dai nostri imprenditori e da tutte quelle iniziative che i sardi che si sentono europei, ecco, vogliono inserirsi nella comunità europea in termini estremamente positivi, hanno proposto questo dialogo attivo e fecondo con l’Europa. Certo, molto affaticato, certo, molto infrenato, perché le risorse sono molto poche, molto condizionato, ma comunque in quella direzione noi andiamo con grande determinazione, con gran fermezza, con grande coinvolgimento della nostra comunità e della nostra collettività regionale.
Ecco, allora, in questo senso i PIM mi pare che, pur aprendo spazi rilevantissimi sul piano del tutto teorico ed astratto in certo senso però ne diventano un momento di contrazione sul piano della disponibilità delle risorse. Noi sappiamo che non possiamo far affidamento sugli aiuti esterni per risolvere i nostri problemi che dobbiamo ritrovare in noi stessi la capacità di risolvere i ritardi, di risolvere non solo i ritardi ma proprio i problemi di integrazione della nostra comunità con la comunità nazionale, prima di tutto, italiana, mediterranea ed europea. Dobbiamo trovare in noi stessi la capacità organizzativa e politica, individuare gli obiettivi e di realizzarli contando sulla solidarietà dello Stato, contando sulla solidarietà dell’Europa, ma principalmente responsabilizzando le nostre azioni in vista di questi obiettivi. Ecco perché posso dire che, pur in assenza di una politica di intervento straordinario del Mezzogiorno che ancora stenta a decollare, che non decolla, ho molto apprezzato l’iniziativa della presidenza del Consiglio dei Ministri che nei prossimi giorni farà svolgere un grosso dibattito, mi pare il 12 a Roma, i relatori sono, fra l’altro, due sardi, Soddu e Carrus, sull’intervento straordinario. Certo è un’altra fase di dibattito prima ancora che la legge cominci ad operare, però è un fatto importante perché sono previsti gli interventi di cinque ministri, quindi, siamo ormai alla stretta finale; finalmente i miliardi delle azioni organiche ivi previste potranno iniziare a dare i loro frutti. Però la verità è questa, che noi nel 1984 abbiamo assunto l’amministrazione della Regione Sarda avendo un incremento di inoccupazione annuo che superava le 12 mila unità all’anno; avevamo il più basso indice di reddito, cioè di valore aggiunto di tutta Italia, avevamo in assoluto un numero di disoccupati, in percentuale, più alto d’Europa, battevamo l’Andalusia e l’Estremadura, eravamo in una situazione veramente critica. Il sistema economico sardo era indebitato perché i consumi erano di gran lunga, lo sono ancora, superiori alle produzioni, per cui il nostro sistema economico si andava indebitando in misura crescente, l’importazione dell’agro-alimentare che nei decenni scorsi costituiva una delle fonti maggiori di reddito per la nostra comunità, per le nostre esportazioni, in Italia e all’estero, registravano passività paurose come 700 miliardi annui soltanto nel settore agro-alimentare. Ebbene, oggi noi possiamo dire che, dall’85, dall’86 non abbiamo un solo inoccupato in più nella nostra Regione, che dall’87 abbiamo iniziato ad aggredire anche la massa piuttosto rilevante di disoccupazione attraverso un ampliamento della base occupativa e produttiva, abbiamo visto il settore dell’agricoltura incrementarsi in un anno del 30%, l’esportazione del 29%, ma il sistema economico sardo aumentare la propria capacità di esportazione, l’intero sistema economico sardo, del 25%, ridurre, sia pure di poco, dell’1,5% l’importazione, migliorare, quindi, globalmente il rapporto export-import per cui il nostro reddito, cioè, il valore aggiunto realizzato in Sardegna è andato attestandosi sui livelli nazionali. Certo non siamo gli ultimi della classe, ma siamo sempre in una situazione di grave crisi, perché le posizioni di partenza erano posizioni di profondo sottosviluppo, di grave dissesto economico, di disorganizzazione nelle azioni esterne della Sardegna, per cui operavano individualmente i pochi operatori economici che riuscivano a superare quella terribile barriera che per noi è diventata nei millenni il mare, cioè una delle più grandi risorse che in natura esistono a disposizione dei popoli, per noi non è stata tale, da due mila anni a questa parte noi non abbiamo economia marittima, noi siamo prigionieri del mare e viviamo all’interno di un’economia dentro le nostre sponde che certamente non dà respiro, non dà prospettiva, non dà gratificazione alla nostra economia.
Ecco, stiamo uscendo da tutto questo, oggi stiamo veramente guardando di là dall’orizzonte sicuri che al di là dell’orizzonte noi troveremo rapporto, dialogo, comprensione, apprezziamo quindi i PIM anche sotto questo aspetto anche come forma di rottura dell’isolamento, non dell’insularità, che quella la accettiamo, l’amiamo, perché l’ambiente nel quale siamo inseriti esprime la nostra stessa spiritualità, determina il nostro modo di essere sardi nella comunità italiana, nella comunità europea, nella comunità mediterranea, con le nostre tradizioni, con i nostri valori, la nostra cultura, la nostra lingua, il nostro modo di affrontare i temi e i problemi di valenza universale, una realtà unica e irripetibile che vogliamo conservare. Ma vogliamo anche però inserirci da protagonisti e non da emarginati.
Allora, che dire? Rimproverarci perché abbiamo scritto un libro dei sogni? Non è un libro di sogni. È un libro nel quale noi abbiamo posto precisi obiettivi economici, sociali e politici. E gli strumenti sono molteplici, certo, se fosse venuta dall’Europa una massa di risorse capace di aggredire il sottosviluppo sardo e non solo questo, ma di aggredire il sottosviluppo presente in Europa, e di consentire quindi alle Regioni rimaste in ritardo la capacità, naturalmente, non pretendendo che tutto venga dall’esterno, ma che vengano dall’esterno quelle risorse che siano adeguate all’impegno, all’obiettivo, perché altrimenti noi arriviamo al ’92 per confrontarci con le economie di gran lunga più forti delle nostre, e nel ’92, quando avremo il mercato unico, non avremo l’Europa dei popoli, non avremo un governo unitario dell’Europa, non avremo un governo politico dell’Europa, avremo il mercato dell’Europa. Quindi, un confronto tra forze economiche e le forze economiche prevalenti prevaricheranno le forze più deboli. Noi siamo ben consapevoli di non avere, per il ’92, questa forza. Certo che ci stiamo organizzando, certo che ci stiamo preparando, ma contiamo molto sull’iniziativa dello Stato, della stessa Comunità, perché le Regioni rimaste in ritardo nello sviluppo non siano imprigionate in un sottosviluppo strutturale, in un sottosviluppo che verrebbe a determinarsi inesorabilmente, inevitabilmente minando sin dalla sua costituzione la comunità stessa e la sua ragione d’essere. Certo, ci preoccupa molto che non si individui con chiarezza l’obiettivo. Le Regioni rimaste in ritardo nello sviluppo in Italia sono quelle che sono al di sotto di quell’indice di reddito nazionale. Si parla, mi pare, del 70% del reddito nazionale, le Regioni che sono al di sotto o del 70 o del 65% del reddito nazionale hanno diritto ai fondi infrastrutturali. Ma se vi sono inserite Regioni che hanno potenzialità più elevate evidentemente le risorse a disposizione delle Regioni più deboli diminuiscono. Ma diminuisce la concentrazione dell’intervento, l’incisività dell’intervento, il significato dell’intervento. Andiamo a formulare delle azioni non tanto per la dispersione di poche risorse in più o in meno perché, quando alla Sardegna venissero 40 miliardi o 60 miliardi e il lotto della strada Olbia-Budoni, saranno 40-30 Km. di strada, ma se vi sono delle gallerie temo che questi soldi non basteranno.
Noi abbiamo nel nostro bilancio regionale risorse anche in misura superiore. Allora il problema qual è? Il dovere di dare alle Regioni gli spazi operativi, anche in rapporti internazionali, che sono necessari per la integrazione reale delle Regioni del sottosviluppo nelle Regioni dello sviluppo. Quindi, quando si ricorda che anche le Regioni hanno una personalità giuridica che consente loro, non la titolarità dei rapporti di diritto internazionale, ma la titolarità degli atti internazionali, che non sono necessariamente di diritto internazionale che non comporta necessariamente la titolarità della rappresentanza internazionale, ma consentono però di compiere atti internazionali, prima di tutto all’interno della comunità, prima di tutto all’interno della Comunità Economica Europea, perché in questa si realizza la politica del nostro Paese ed è il nostro Paese che ci porta dentro questa realtà facendoci cittadini di una comunità più vasta di quella nazionale.
Allora, in questo senso io credo che possiamo trovare sinergie più vaste, che possiamo trovare comunità di interessi, più convergenti e più capaci di mobilitare le energie potenziali che ci sono nelle singole realtà regionali e noi siamo aperti a questa prospettiva, siamo disponibili, così come siamo molto attenti all’impegno per la ricerca. Non a caso, pur nella modestia estrema del nostro bilancio, anche quest’anno abbiamo stanziato 24 miliardi per la ricerca in un rapporto con le Università sarde, con le due Università sarde. Sono molto modeste le nostre risorse, ma 24 miliardi sappiamo che possono determinare una ricaduta nella ricerca di processo, soprattutto, perché non possiamo presumere di fare la ricerca pura, ma nella ricerca di processo possiamo offrire ai nostri operatori economici, possiamo offrire alla nostra comunità strumenti di conoscenza capaci di fare avanzare il nostro sviluppo.
Quindi apprezzo le sollecitazioni che sono pervenute dal prof. Pasolini dal Centro nazionale delle ricerche per una più intensa collaborazione fra gli Istituti scientifici e l’attività di governo, e l’attività politica. Noi vogliamo essere europei, vogliamo essere soggetti e cittadini di comunità che assumano la democrazia come valore di eguaglianza e quindi di progresso in uno sviluppo che non sia soltanto economico ma che abbia valenze civili, che sappiano elevare le nostre comunità a protagoniste di un avvenire migliore.