Intervento sul bilancio dello Stato – Senato della Repubblica – VII Legislatura – 237a seduta pubblica – mercoledì 5 aprile 1978

Disegni di legge:
«Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 1978 » (912), « Nota di variazioni al bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 1973 » (912-bis) e « Seconda nota di variazioni al bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 1978»
«Rendiconto generale dell’Amministrazione dello Stato per l’esercizio finanziario 1976»

E iscritto a parlare il senatore Melis. Ne ha facoltà.
Melis. Signor Presidente, onorevoli rappresentanti del Governo, onorevoli colleghi, il particolare momento politico nel quale viene a cadere la discussione sul bilancio 1978, induce a severe analisi sui complessi fattori che hanno creato il grave processo di degradazione delle pubbliche istituzioni.
Il clima di tensione, le traumatiche esplosioni di violenza che insanguinano le nostre città, il diffuso senso di insicurezza e di precarietà che caratterizza la vita dei singoli, delle forze sociali, delle grandi comunità, l’impotenza dello Stato, la sua cronica incapacità a fronteggiare le spinte disgregante dell’economia e dell’organizzazione sociale, trovano la loro genesi nel tipo di gestione del potere che la classe burocratico-politica dirigente ha svilito a mero clientelismo.
È mancata una visione unitaria ed organica dei grandi temi sui quali si incardina la vita nazionale, il loro coordinamento nel quadro di una programmazione agile e dinamica, suscettibile di stimolare; liberare e razionalizzare le energie creative presenti nel paese.
Si è subito, o meglio è stato istituzionalmente protetto, il saccheggio delle pubbliche risorse da parte di ristretti gruppi imprenditoriali e finanziari tesi ad appropriarsi della ricchezza più che a produrla. Ed era fatale che intorno a tali gruppi si formassero vaste sacche di parassitismo i cui costi sono stati pesantemente pagati dalla comunità.
Il guasto più grave è però a mio avviso conseguente al decadere del senso dello Stato, del senso morale che ne regge d’intima struttura e che raccoglie attorno ad esso il consenso e l’operoso sostegno dei cittadini.
Si sono andati così aggregando interessi diversi che, scollegati dal contesto civile ed economico, hanno formato le impenetrabili giungle che oggi compartimentano e lottizzano non solo l’economia e le sue risorse ma la stessa organizzazione civile della società e dello Stato; aggregazioni anomale che distorcono i processi produttivi, lo sviluppo, la formazione del reddito e la sua distribuzione. In questa logica l’emarginazione diventa un fenomeno di massa; il malessere, elemento costitutivo della struttura sociale; la protesta degenera nella sfiducia e quindi nell’eversione. E quanto più si afferma e prospera l’area del privilegio, tanto più si affievolisce ed attenua la presenza, l’incisiva e riequilibratrice dello Stato nella cui assenza avanza sempre più violenta e destabilizzante la forza di torbide minoranze il cui unico fine, appare chiaro, è quello di annientare le libere istituzioni garantite dallo Stato democratico. Si è rinunziato alle grandi riforme di struttura tenendo così in piedi un apparato statale superato e inattuale, appesantito da procedure puramente formali corpose e farraginose nelle cui maglie, chiuse e defatiganti per l’onesto, si sviluppa, per contro, da malapianta del favore quando non anche — e accade spesso — della corruzione.
Lo Stato di diritto perde così di significato per divenire arena di contrattazione e di prevaricazione. Oggi la crisi sembra aver raggiunto il suo culmine assumendosi ad emblema di questa il sanguinoso agguato del 16 marzo nel quale è stata sacrificata la vita di 5 valorosi e sequestrato l’onorevole Aldo Moro, Presidente del partito di maggioranza ed insigne statista del nostro paese.
Ma in quello stesso giorno, così drammatico ed angoscioso per la nostra Repubblica, abbiamo registrato un fatto nuovo, ricco di significato e di prospettive: l’ingresso del Partito comunista nella maggioranza di governo; e di ciò sono ben consapevoli i mandanti e gli esecutori del feroce agguato. A ciò si opponevano e, con una azione tanto più disperata tanto più è stata crudele e violenta, hanno vanamente tentato di impedirlo. Ma il tentativo non poteva che fallire essendo ormai chiaro anche a coloro che, dentro e fuori di questa Aula, vorrebbero perpetuare nefaste quanto innaturali contrapposizioni, come senza il sostegno delle masse popolari, non solo non si supera la crisi, ma non si è neppure in grado di garantire la sopravvivenza dello Stato democratico. Non si è quindi solo cambiata la maggioranza ma si è aperta una nuova pagina di storia nella quale è coinvolto da protagonista tutto il popolo italiano. Certo, il mutamento del quadro politico costituisce solo la necessaria premessa al conseguente mutamento delle scelte di politica economica, sociale e civile del paese. Primo fondamentale impegno del Governo è costituito dall’esigenza di ridare prestigio, incisività e dinamismo alla presenza dello Stato nella società restituendo certezza ai rapporti tra i cittadini e di questi con il pubblico potere onde emerga, nella sua essenziale fermezza, l’impegno individuale e collettivo dei diritti e doveri. In questo quadro la riforma fiscale si pone quale impegno prioritario, non già per sottoporre i contribuenti a nuovi e ad ormai intollerabili sacrifici quanto per stroncare la pratica dell’evasione che, favorendo i più forti, si trasforma di fatto in una sorta di sanzione per le masse.
L’anagrafe tributaria, al di là della funzione di rigoroso strumento finalizzato ad accertare le fonti di imposta, dovrà assumere il ruolo di profondo risanamento morale nel senso che, rendendo impossibile — o quanto meno molto problematica e rischiosa — l’evasione, ne ridurrà la portata entro margini fisiologici e perciò stesso irrilevanti ai fini sociali ed economici. Altro momento qualificante è costituito dal pieno adempimento dei princìpi e delle norme di attuazione della 382 in ordine alla riforma regionalista dello Stato. L’esperienza delle regioni a statuto speciale non è in questo senso molto promettente. In verità Sicilia, Sardegna, Trentino Alto Adige, Valle d’Aosta, Friuli-Venezia Giulia hanno dovuto attendere decenni perché i poteri statutari si trasformassero in norme di attuazione operanti mentre, per contro, il governo centrale ed i suoi organi, burocratici hanno pervicacemente defatigato d’azione autonomistica delle regioni dando alle funzioni, competenze e prerogative di queste, interpretazioni sempre ottusamente restrittive con il risultato di frustarne lo slancio creativo e le aspettative delle popolazioni. Si è in sostanza paventato l’empito di rinnovamento regionalista dello Stato che, con il suo pluralismo, finalmente liberato dalle politiche centralistiche, avrebbe attinto dalla base idee, energie e capacità ancora inespresse per dare contenuti nuovi e moderni alla nostra civiltà democratica.
Bisogna mettere le regioni, quindi, al riparo da possibili ulteriori attentati alle loro capacità decisionali e, nell’ambito dei rispettivi statuti, dando coerenza alla struttura dello Stato in tutti ii suoi organi. Perché il Parlamento sia il supremo garante dalle autonomie regionali deve cessare di essere esso stesso un organo di tipo centralistico per rinnovarsi e meglio rispondere a questa sua altissima funzione.
Mentre una delle due Camere deve continuare ad esprimere il momento nazionale ed essere costituita da rappresentanti eletti in proporzione al numero degli elettori dei diversi collegi, l’altra dovrà costituire il momento regionale e, quindi, ogni regione dovrà  esservipariteticamente rappresentata.
Nelle moderne democrazie gli esempi sono numerosi ed illuminanti, non solo per l’alto grado di civiltà e di equilibrato sviluppo oltre che di progresso da queste raggiunto, ma, altresì, perché ad un tale sistema fanno ricorso Stati aventi organizzazioni politiche e sociali diverse.
Le due Camere, così costituite, lungi dal contrapporsi, potranno integrarsi e recipro-camente arricchirsi in quanto entrambe rappresentative di esigenze e problemi reali presenti nel paese.
Oggi sono in fondo luna il doppione dell’altra e non è raro il caso in cui tale situazione si traduca in una perdita di tempo del tutto inutile e dannosa.
La stessa Corte costituzionale, quando giudica in materia di conflitti di competenza tra le regioni ed il Governo, deve essere integrata da giuristi eletti dalle regioni in modo che il collegio non sia espressione di ima sola parte, ma sintesi reale degli interessi dedotti in giudizio.
Anche su questo punto gli esempi sono altrettanto numerosi e le esperienze largamente positive. Questo discorso di prospettiva, che peraltro il Partito sardo d’azione va proponendo ormai da tempo, non deve però distrarci dalle esigenze di adempimenti divenuti indilazionabili. Fra questi emerge prioritaria l’esigenza di dare coerenza all’ordinamento regionale e alla pubblica amministrazione, estendendo alle regioni a statuto speciale, nelle forme previste dai rispettivi statuti, il potere, le funzioni, le competenze e le deleghe riconosciute alle regioni a statuto ordinario con il decreto di cui all’articolo 1 della legge 382.
La Commissione parlamentare per le questioni regionali si è in tal senso pronunciata approvando all’unanimità, in data 20 luglio 1977, un ordine del giorno che il Governo ha accettato, sia pure nei termini dell’invito.
Ebbene, onorevoli colleghi, il non darvi adempimento, o il solo ritardarlo si traduce in una sostanziale violazione della norma costituzionale che postula per le regioni a statuto speciale una sfera decisionale operativa ben più ampia ed incisiva di quella riconosciuta alle regioni di diritto comune.
La genesi politica di tale scelta da parte dei costituenti trova la sua legittimazione nella specificità dei problemi, nella diversa evoluzione storica, nella particolare condizione geografica, nella peculiarità dello sviluppo economico e sociale, nell’originalità della cultura, tradizioni e costumi, nel particolare modo di collegarsi ed integrarsi dì queste regioni con lo Stato e nello Stato.
Esse costituiscono per tanti aspetti realtà diverse, non comparabili e quindi irripetibili nel restante territorio nazionale e come tali esigono soluzioni coerenti ed originaci che solo il potere regionale è in grado di interpretare, elaborare e realizzare con ila necessaria tempestività ed aderenza alle aspettative delle popolazioni. Il disattenderle creerebbe una situazione di fatto e di diritto di dispar condicio, negativa, in forza della quale la specialità statutaria si trasformerebbe in una minorazione del potere autonomistico inaccettabile ed antistorica.
Ma è mio più preciso compito richiamare l’attenzione del Governo e dei colleghi sugli specifici problemi della Sardegna. E non sembri questo un aspetto particolare e marginale rispetto ai più vasti e complessi problemi italiani. Si cadrebbe in un grave errore storico e politico. La Sardegna costituisce, nel contesto dello Stato, un’entità a se stante, non assimilabile di certo al Mezzogiorno d’Italia, come sovente — e con troppa approssimazione — si sente affermare. Del Mezzogiorno non ha vissuto le vicende storiche, i problemi, la cultura, l’economia, lo sviluppo. La stessa insularità, tenendola lontana per lunghi secoli dalle esperienze italiane, ha favorito il formarsi di una etnia singolare e autonoma che conferisce al popolo sardo un’identità sua propria che va rispettata, recuperata, valorizzata e finalmente liberata dal viluppo di condizionamenti che ne hanno infrenato il naturale espandersi ed affermarsi nel contesto dei popoli mediterranei ed europei.
Perché i sardi possano dare all’Italia il contributo creativo ed originale di cui sono capaci debbono esistere come popolo e non essere assorbiti, inglobati, distrutti, sì da spegnerne l’intima spiritualità che ne anima la cultura, il senso etico, ila volontà di rinascita economica e civile.
Noi sardisti, sin dal lontano 1921, siamo stati gli assertori convinti di un moderno federalismo che, mobilitando dal profondo le energie delle popolazioni, ritrovi nello Stato quella forza di coesione, liberamente scelta, che dia al nostro paese quell’unità reale ancora oggi auspicata ma ben lontana dall’essere realizzata.
Ad ispirare questi princìpi di rinnovamento profondo dello Stato sono stati i combattenti sardi, uomini come Lussu, Bellieni, Oggiano, Giacobbe, la cui italianità si è sublimata nel sacrificio della guerra. A questi uomini, raccolti nel Partito sardo d’azione, dava la sua adesione fervida Antonio Gramsci che noi ricordiamo come il più valido amico, il più illuminato tra coloro che hanno sostenuto le idealista sardiste.
Fermenti vivi e prepotenti scuotono oggi le masse contadine ed operaie sarde. Mentre la crisi economica ed occupativa rovina sul popolo sardo esasperandone la drammatica condizione di sottosviluppo e di emarginazione i sardi si vanno cercando nelle fabbriche, nelle scuole, negli ovili, nei villaggi, nelle città per recuperare i valori della loro cultura e ricostruire intorno ad essa la forza morale e politica capace di vincere l’indifferenza dei governi centrali e la sfiduciata rassegnazione della classe dirigente regionale.
Molte magliaia sono ormai le firme raccolte nell’Isola perché, attraverso un referendum regionale, vengano attivate le procedure legislative per l’insegnamento della lingua sarda nelle scuole e del suo uso legale nella vita civile, nei rapporti con gli uffici pubblici.
I più fervidi assertori di questa rinnovata e vitale riappropriazione dell’identità sarda sono proprio gli emigrati che, nella struggente lontananza dalla terra natia, ne vedono lucidamente i problemi e lottano per ima rinascita che garantisca ali loro figli quanto ad essi è stato negato.
Non di folklore ci si sta occupando, ma di una rinascita reale che scaturisca dalla coscienza popolare e da questa venga tradotta in azione politica.
Oggi, dicevo, l’Isola vive giorni angosciosi ma non disperati. A noi sono pressoché sconosciuti gli atti di gratuita violenza che scuotono nel profondo la vita della società italiana; ma sarebbe grave errore confondere la responsabile misura dea sardi con la rassegnata accettazione dell’ingiustizia, quasi fatalità ineluttabile derivante da un destino avverso ed invincibile.
Nel confronto politico ricerchiamo le vie democratiche non di una rivendicazione querula e protestataria, ma di soluzioni creativamente valide che, componendo gli interessi generali del paese con quelli dell’Isola, aprano a questa concrete opportunità di inserirsi con pari dignità tra le altre regioni italiane.
In questa prospettiva si colloca il richiamo alla gravissima crisi produttiva e occupazionale che ha investito la Sardegna: oltre il 60 per cento degli addetti alle attività industriali è stato espulso dal processo produttivo. Mi riferisco alle industrie petrolchimiche, chimiche, a quelle delle fibre, del settore minero-metallurgico, sia del piombo-zinco che del rame e del carbone; mi riferisco altresì alle modernissime industrie metalmeccaniche presenti in Sardegna oltre a quella delle seconde lavorazioni dello alluminio prodotto dall’Alsar. Crisi responsabilmente valutata e riconosciuta, nei giorni scorsi, dal ministro del lavoro onorevole Scotti il quale, dopo l’incontro con gli organi del governo regionale, ha formalmente proposto di estendere ad alcuni settori industriali sardi la legge di Taranto; un provvedimento congiunturale quindi, di pura assistenza, che non risolve i gravi problemi che ne sono alla base.
I contingenti produttivi fissati per l’Italia dalla CEE sono inferiori di circa il 50 per cento alla capacità industriale in atto. Di qui la necessità di operare scelte rigorose che privilegino la Sardegna e le aree meridionali dove, in questi ultimi anni, sono state localizzate industrie di settore che, per l’alta tecnologia di cui sono dotate e per la rilevanza degli investimenti che hanno comportato, sono di gran lunga più capaci di reggere il confronto e la concorrenza straniera rispetto ad altre che avrebbero invece bisogno di radicali ristrutturazioni per essere riportate a ritmi produttivi accettabili.
La scelta dei sindacati peraltro si muove nello stesso senso; tutto ciò a prescindere dalla considerazione squisitamente sociale che, a differenza di quanto potrebbe avvenire altrove, in Sardegna e nel Mezzogiorno non esistono attività alternative nelle quali assorbire i possibili licenziati.
Per l’industria dello zinco sembrerebbe che l’ENI, modificando il suo iniziale orientamento, abbia maturato il proposito di realizzare a Porto Vesme, pressoché a bocca di miniera, l’impianto elettrolitico per l’industrializzazione del minerale ricavabile dalle calamine sarde. È una scelta, non solo opportuna e necessaria, ma, in verità, l’unica possibile; localizzare altrove una tale industria, come si sostiene, significherebbe decretare la chiusura delle miniere zincifere sarde essendo antieconomico il trasporto del minerale estraibile in conseguenza dei suoi bassi tenori mentre, con la realizzazione dei predetti impianti metallurgici, si valorizza una riserva locale, si riduce il passivo della bilancia commerciale, si garantisce occupazione in una zona depressa e si adottano una politica ed una strategia industriale di approvvigionamento delle materie prime che non sia totalmente dipendente e condizionata dal commercio estero.
Le stesse considerazioni valgono per il rilancio delle miniere del bacino carbonifero ove si voglia realmente perseguire una politica energetica che assicuri all’Italia una riserva autonoma di materie prime che la ponga, quanto meno in parte, al riparo dalle ricorrenti crisi in forza delle quali è costretta a dipendere dalle decisioni politiche di paesi stranieri. Ma nessuna industria, per quanto valida, potrebbe dare respiro allo sviluppo sostanziale dell’economia sarda ove non si privilegi e si potenzi adeguatamente l’agricoltura realizzando integralmente e al più presto il piano speciale delle acque ancora all’esame della Cassa per il Mezzogiorno. Oltre 100 chilometri di vasta pianura, da Oristano a Cagliari, potrebbero passare, nel breve volgere di pochi anni, dalle attuali colture estensive ad una produzione intensiva altamente specializzata di rilevanza internazionale e contribuire, in termini significativi, al riequilibrio della bilancia commerciale nel settore agroalimentare. È solo un esempio che riguarda le provincie di Cagliari e di Oristano, ma la valle del Coghinas in provincia di Sassari, le baronie e alcune zone dell’Ogliastra, in provincia di Nuoro, attendono solo la realizzazione di queste essenziali infrastrutture per mobilitare energie umane ansiose di ritornare al lavoro dei campi dal quale sono state espulse per l’abbandono cui sono state condannate le campagne dalla politica dello Stato e della stessa regione.
Ma queste aspettative sarebbero inesorabilmente condannate alla più cocente delusione se non si affronta definitivamente il problema dei collegamenti interni ed esterni della Sardegna. Disponiamo ancora di una sola linea ferroviaria statale, vecchia di oltre un secolo, che ha bisogno di essere rimodernata, elettrificata e rettificata in alcune parti del suo tracciato. Per i collegamenti esterni non si chiede altro che di essere trattati alla stessa stregua degli altri italiani, raccordando le nostre tariffe marittime a quelle ferroviarie e autostradali in vigore in tutto il territorio nazionale. Il maggior costo pagato dall’economia sarda per i suoi collegamenti esterni ne frena le potenzialità espansive e rende i suoi commerci non competitivi rispetto alle produzioni concorrenti.
Vorrei infine completare questo quadro di sintesi sottolineando l’importanza che assume per l’economia italiana la Sardegna in relazione ai traffici marittimi del Mediterraneo tornato ad essere un mare di rilevanza mondiale dopo la riapertura del canale di Suez ed il rapido emergere dei popoli ex coloniali che sono attivamente presenti nell’Africa settentrionale e nello stesso Medio Oriente. Potenziando i porti sardi ed in particolare il costruendo porto-canale di Cagliari e dotando questo di un punto franco da estendere in fase successiva a quello di Porto Torres o ad altri quali Oristano ed Arbatax si realizzerebbe nell’isola il naturale terminal mediterraneo della navigazione atlantica facendone un punto di forza, di raccordo, di smistamento dei traffici marittimi, sempre più intensi tra i popoli rivieraschi del Mediterraneo; un porto che, svolgendo una funzione prevalente estero per l’estero, consentirebbe l’insediamento di numerose industrie di trasformazione che arricchirebbero l’economia italiana, dando ai sardi l’opportunità di meglio rispondere alla loro vocazione europea e mediterranea cui sono chiamati in virtù della loro collacazione geografica e della loro storia.
Più che di avere, i sardi chiedono di poter dare; non queruli postulanti di sussidi, ma artefici vitali e determinanti di progresso. Amiamo pensare alla nostra terra non quale essa oggi è: una polveriera atomica, un bastione militare avanzato, minacciosamente vigile nel Mediterraneo, ma un’isola di pace e di lavoro, momento di pace e di incontro tra i popoli, di commerci, di culture e di civiltà diversi.
Con tali premesse il voto che il partito sardo esprime sul bilancio è un voto di attesa, fiduciosa ma critica. La relazione del collega Lombardini ne coglie con felice intuizione le croniche insufficienze, denunziandone la funzione sostanzialmente congiunturale. Il Governo si è impegnato a proporne entro maggio sostanziali variazioni; noi attendiamo il Governo a tale appuntamento, riservandoci di esprimere in quella sede un voto politicamente significativo che oggi non può che essere, ripeto, di attesa e quindi di astensione. (Applausi dall’estrema sinistra).