Ho accettato volentieri di ricordare a voi la figura di Pietro Mastino che ho avuto l’onore di conoscere, d’essergli amico, d’averne condiviso gli ideali in un rapporto che pur ricco di umani valori si è costantemente mantenuto, in spirito di cordialità mai venata d’autoritarismo saccente né da piaggeria subalterna.
Pietro Mastino era “naturalmente” un Maestro, un grande Maestro non già perché volesse esserlo ma, da autentico uomo di cultura, dedicava alla lettura umanistica, politica e di vario sapere ore della sua giornata già largamente impegnata nel quotidiano studio dei processi e dal necessario dialogo con i clienti sia nel proprio studio che con i detenuti in carcere.
Gli impegni di lavoro non gli impedivano il rapporto ricco, frequente ed approfondito che era solito accettare o sollecitare con quanti, dimostrandogli amicizia, fossero in grado di arricchirne i saperi e le umane esperienze. Direi che forse per offrirsi l’opportunità di questo genere di frequentazioni non rinunziava, tempo permettendo, alla quotidiana passeggiata serale nel corso della città.
Non si sottraeva mai al confronto e, pur nell’ambito di un’immateriale barriera etica, accettava il dialogo col contadino, il pastore (che in fondo lui preferiva) l’intellettuale, il politico e l’uomo di cultura.
Pietro Mastino era un uomo che, come si direbbe oggi, spaziava a tutto tondo, su ogni campo dell’umana esperienza.
La sua intelligenza si soffermava con particolare interesse sul mondo rurale (che amava), sui suoi valori ma altresì sulla complessa molteplicità dei limiti culturali e fisici, sulle contraddizioni, sull’irrazionale violenza degli impeti individuali e collettivi, che inaridivano il cuore e le lacrime dei protagonisti.
Ma Pietro Mastino sapeva cogliere il vago sorriso del bimbo occasionalmente incontrato, il lampeggiare di uno sguardo che, pur senza dire, evocava retroscena gioiosi lasciando intravedere l’incontro di spiriti vibranti di attività operosa in vista – magari – di un’imminente festa da celebrarsi fra slanci affettivi e lazzi brucianti d’ironia nell’intimità del gruppo familiare, o fra amici.
Ebbene Pietro Mastino amava e si elevava su tutto ciò. Coglieva fremiti, tensioni, fermenti, e ne intuiva possibili sviluppi paventandone anche le cicliche, folgoranti involuzioni; l’impegno pacificatore da lui profuso scendeva nel cuore incrostato da ruggine rancorosa come una rugiada vivificante capace di dischiudere nuovi orizzonti nella cui luce evidenziava le diverse prospettive di serena, feconda convivenza.
Sì Pietro Mastino che ho conosciuto io, – che mi concedeva la sua confidenza cordiale, accettava e ricercava, con semplicità ed affetto la mia compagnia e quella di altri miei giovani colleghi, sapeva intessere un rapporto dal quale, bandita qualsivoglia ombra di prevaricazione intellettuale, tollerava con paziente, cortese ironia il nostro indottrinamento giuridico, intessuto di citazioni quando non addirittura di presuntuosa polemica; ben lontano dal risentirsi accettava, da pari a pari il confronto; polemizzava, discuteva e ragionava, dimostrava e, senza parere, insegnava al nostro acerbo sapere i valori profondi dell’umana sofferenza da noi imprigionata nell’arido susseguirsi degli articoli di legge; né i suoi confronti intellettuali si esaurivano con giovani e vecchi avvocati ma si ampliavano, come mi è accaduto di assistere, alla letteratura, all’arte, sino alle più recenti ed incisive scoperte scientifiche.
Si commetterebbe perciò grave errore pensare ad un Pietro Mastino intellettualmente chiuso solo in rigorose analisi di dottrine giuridiche.
Il suo conversare era ricco ed avvincente; i principi palpitavano di umanità dando ai protagonisti nome e volti. Ci raccontava aneddotti di pastori, contadini, avvocati e giudici protagonisti di vicende nelle quali nell’incrociare delle lame dialettiche lampeggiavano intelligenze degli uni o degli altri senza gerarchie paludate ma con risultati sempre altamente significativi; mai sterili od irrilevanti.
Chi non ricorda Santeddu e’Ledda e il suo avversano Pau con in mezzo un giudice assolutamente irrilevante.
Pietro Mastino era un grande oratore.
Oratore forense e politico la cui compiutezza nel dire si esprimeva con la forza vigorosa ed essenziale dell’esporre. Non amava gli aggettivi ma solo concetti significativamente concludenti in un susseguirsi di temi coerenti, l’uno all’altro necessari, logicamente concatenati, intellettualmente inscindibili.
Il discorso si svolgeva forte, quasi scolpito nel bassorilievo indelebile della pietra, limpido, concettualmente gradevole perché intessuto e concluso da un periodare asciutto e pur vibrante di intensa umanità.
È curioso rilevare come Pietro Mastino non avesse voce gradevole; peccava di una fonetica nasale che credo, soprattutto all’inizio del suo dire, esaltava artatamente.
Sì perché nelle parole iniziali di Pietro Mastino, parlo dell’oratore forense, senza parere, ma con grande modestia e semplicità, si ponevano alcune premesse che il giudice tendenzialmente accettava in modo acritico, non solo perché erano battute iniziali di lapalissiana chiarezza, ma perché venivano interpretate di solito, come necessaria introduzione ad un dire assai più importante. E quindi il giudice lo attendeva nelle parti alte dell’arringa.
E invece no, nelle arringhe di Mastino le premesse costituivano un tutt’uno con l’intero discorso costituendone base essenziale.
Le premesse, una volta accettate o comunque non scalfite, l’interprete non trovava in tutto lo sviluppo dell’arringa un solo punto che se ne discostasse; ne costituivano la solida fondamenta e se gli si voleva dar torto bisognava risalire a quelle e lì trovare il marchingegno logico che viziava, invalidandolo, il successivo ragionamento.
Sbaglierebbe però chi pensasse ad un Mastino dal respiro ciceroniano il cui periodare, arricchito di incisi, critiche, evocazioni e conclusioni si traducesse in un incalzare di argomenti intellettualmente invasivi dell’intelligenza dell’ascoltatore e tali da non consentirgli una riflessione critica.
Il discorso di Pietro Mastino era ampio, sereno cadenzato da ritmi concettuali vibranti d’interiore armonia; l’ascoltatore ne era affascinato, coinvolto ed inconsciamente partecipe sì da sentirsi egli stesso protagonista morale del dramma umano, sottoposto al giudizio processuale.
Era difficile, mentre lo si ascoltava, resistere al suo argomentare. La riflessione critica apparteneva ad una fase successiva ed era, di norma, possibile a professionisti esperti, giudici ed avvocati.
A Nuoro non era solo; altri grandi oratori occupavano il proscenio forense: da Gonario Pinna ad Antonio Monni, Salvatore Mannironi, Luigi Oggiano, Francesco Murgia, Giovanni Battista Melis, Ignazio Sanna ed altri; di tutti si può dire qualità fuori dal comune e tali da onorare questo Tribunale, la Città, la Sardegna.
Ma Pietro Mastino, a modo suo, era solo.
Non ricorreva certo alla facile mozione degli affetti per titillare epidermicità di sentimenti ed emozioni; rifuggiva dall’oratoria sentimentale pur stimolata dalle mille opportunità offerte dalla causa. Come rifuggiva dall’infiorare i suoi discorsi con il latinetto di classici broccardi o citazioni letterarie non strettamente funzionali al tema in discussione.
Viveva il dramma processuale senza sbavature o facili concessioni al sentimento ma proponeva al Giudice le vibrazioni della profonda umanità che è pur sempre presente in ogni atto umano; sapeva giungere alla mente ed al cuore dei giudici con la forza del pensiero e della logica, di cui era signore.
Né si pensi che la sua oratoria, scarna ed essenziale, fosse aliena o, peggio, incapace di vis polemica; sapeva come pochi altri cogliere il momento debole nella tesi avversa e folgorarla con una battuta reagendo a sua volta con vigore e con forza alle avverse interruzioni senza trascurare, ove possibile, la battuta sarcastica.
È rimasta a lungo negli annali della storia giudiziaria sarda la risposta ad un professionista che lo aggrediva dicendogli: “ma Lei se la prende con i mulini a vento”, sentendosi rispondere quasi a volerlo rassicurare: “chissà perché Lei crede di essere un mulino a vento”.
Fiori di questo genere se ne potrebbero cogliere tanti ma rischierebbero d’ingenerare l’immagine di un clima processuale vivacizzato e, per certi versi, dominato dall’incrociarsi di battute più o meno brillanti, laddove l’impegno intellettuale e morale di giudici, avvocati e pubblico, era profuso nel restituire palpiti di sofferta umanità al dramma processuale sottoposto al giudizio del magistrato.
Diversa, ma pur sempre incisiva e di ampio orizzonte, era la sua oratoria politica.
Nel Partito Sardo, per unanime, affettuoso riconoscimento, gli era riservato il compito di presiedere i congressi che, purtroppo, non furono, sin da subito, incontri sereni e di unanime sentire.
Nei primi anni della caduta del fascismo si pose il tema dei rapporti con il Partito d’Azione e quindi con Lussu che ne era diventato il segretario pur essendo fra i fondatori del Partito Sardo.
Solo l’abilità dei dirigenti e dello stesso Mastino impedì la lacerazione del partito al congresso di Macomer.
Non meno tempestoso, lacerante e conflittuale fu quello di Oristano che vide, per alcuni giorni, l’uscita di Lussu dal Partito; uscita che divenne definitiva nel successivo congresso, celebratosi a Cagliari nei locali della Manifattura Tabacchi.
In tutte queste circostanze Pietro Mastino guidò con mano ferma il dibattito dando il necessario spazio allo svilupparsi delle contrapposte tesi senza mai prevaricare, con interruzioni o altre forme, il discorso degli avversari.
Fu testimone e protagonista – con interventi severi, concettosi, asciutti ma sempre creativamente vibranti di passione e patriottismo partitico – del fiorire di una forza politica, volta a realizzare una Sardegna finalmente autonoma e libera da condizionamenti, emarginazioni e sottosviluppo pur determinanti e decisi da ambienti esterni all’Isola.
Per comprendere la forza interiore dei discorsi politici di Pietro Mastino dobbiamo riscoprire tutta la freschezza creativa dei rapporti vivi, intensi, passionalmente sofferti, intessuti con Sebastiano Satta (in minore misura, ma pur sempre significativa, con Attilio Deffenu) e nel farsi egli stesso protagonista, con altri giovani affascinati dai bagliori di una democrazia autonomista capace di rivoluzionare lo Stato rendendo ai popoli delle singole realtà territoriali ed umane, capacità di iniziativa e forza propositiva che senza rinnegare lo Stato lo arricchivano dell’originale peculiarità specifica delle diverse componenti regionali.
Pietro Mastino è quindi portatore di una ventata innovativa che sconvolgendo il torpido mummificato dibattito politico del suo tempo poneva alla coscienza dei Sardi e della democrazia italiana i temi di una libertà che è per sua natura conquista di popolo (mai dono del principe) e quindi, momento orgoglioso di responsabilità.
Né è da pensare che questi giovani avessero un modello di Stato definito in ogni sua parte ma lo vivevano quale crogiolo incandescente di idee in continuo ed inesausto confronto per cui ciascuno restava se stesso con tutta la forza della propria intelligenza, volta a realizzare un ideale di vita, fiore di democrazia fra le istituzioni dello Stato.
I Sardisti non furono sin dall’origine contro lo Stato ma per la sua rifondazione; il loro pensiero, spaziava oltre le coste isolane e dello Stato per ipotizzare una Comunità Europea che internazionalizzando la Sardegna la facesse membro di una famiglia dispensatrice di pace e solidarietà sociale; luce di una nuova civiltà.
A questo pensava Mastino: questo era il suo messaggio di futuro.
A questo pensavano i sardisti negli anni Venti, quando l’Europa incupiva nella notte delle dittature fasciste, dalla nazista alla franchista e dalla salazariana alla stalinista.
Onore e gloria a quei giovani di cui Mastino era un fervido dirigente, che in solitudine, guidati da mirabile intuizione del senso della storia, seppero cogliere le aspirazioni di rinnovamento democratico e di libertà dei popoli contrastando l’instaurarsi di feroci dittature che hanno precipitato l’Europa ed il mondo nell’inumana tragedia della seconda guerra mondiale.
Sassari aveva in Bellieni e Cagliari in Lussu, le figure emblematiche del nuovo movimento; Nuoro, con Oggiano, aveva Mastino.
Non erano ovviamente soli ma certo fra i più significativi. Solo in virtù della forza ideale che ne era supporto si spiega l’oratoria serena, autorevole, scarna ma esaustiva dei discorsi parlamentari svolti da Pietro Mastino, sempre ascoltato dall’aula con rispetto, con consenso e sempre con l’applauso.
Mai una voce aggressivamente discorde ai pur molteplici temi che lui ha trattato dagli anni Venti fino a questo secondo dopo guerra: istituzionali, economici (soprattutto legati all’agricoltura e pastorizia) doganali, trasporti ferroviari, viari, aerei e marittimi, soffermando la sua attenzione su questi ultimi in considerazione dell’esigenza di dotare la Sardegna di un armamento navale capace di istituzionalizzare una economia marittima essenziale alla insularità; non trascurò per altro, direi anzi che li prediligesse, i temi dell’ordine pubblico e dell’attività giudiziaria, denunziando le gravi colpe dello Stato in materia di denegata giustizia all’origine di “giustizia fattasi” da parte di un popolo che, in assenza dello Stato, non accetta l’ingiustizia, la prevaricazione, il sopruso.
I suoi discorsi sono alti di una serenità che diventa insegnamento, di una tensione che coinvolge, di una compiutezza che diventa documento.
Per la cortesia dei nipoti Salis Offeddu, che mi hanno fornito fra i vari documenti alcune rievocazioni di Sebastiano Satta fatte da Pietro Mastino in Iglesias ed in Nuoro, ne ho scoperto l’anima poetica che finalmente sciolta dall’obbligo del dimostrare tesi processuali o politiche, si abbandona all’ineffabile, fervido, gioioso rapporto con l’infinito, per coglierne i coloriti fiori della fantasia.
Pietro Mastino, leggendo ed amando Sebastiano Satta, ne esalta i valori, i personaggi, scoprendone recessi oscuri e pur dolenti di un’anima che non conosce resa ma solo il lungo perenne andare verso i lontani destini del fato.
Né Pietro Mastino se ne vuole allontanare; si accosta ai pastori del Satta, cogliendo nel loro rapporto con l’ambiente il riso dei cieli, la fecondità delle valli, il protagonismo mitico, possente, quasi profetico del patriarca, la cui magia trasfigura i poveri oggetti del quotidiano nei simboli di un popolo.
Quel patriarca non è più solo sardo, ma testimone di valori universali che diventano forza di civiltà. Appartiene agli uomini fuori dal tempo capaci di amare ma altresì di obbedire all’imperio impetuoso di una violenza misteriosa ed antica che vibra e s’intreccia di motivazioni morali ed umane, mentre nello sfondo si ode sommesso il pianto sconsolato delle madri per i figli che non faranno ritorno, caduti negli scontri endemici della tanca.
Ama Pietro Mastino la poesia di Sebastiano Satta, ama il dolore che non ha conforto né domani, quello stesso che ha ispirato Francesco Ciusa nel plasmarne le dolorose laceranti, intime sofferenze dell’animo nella raccolta solitudine della madre dell’ucciso.
La poetica di Pietro Mastino vibra, cresce, diventa consapevolezza e si trasfigura nel brullo susseguirsi di paesaggi inariditi dal lento trascorrere di estati assolate, vigilate dall’arcana incombenza di antichi nuraghi; coglie e si commuove dinanzi alla sublime figura del pastore solitario che, nel suo errabondo vagare, coglie nel vuoto degli orizzonti, la certezza di un’aurora, che, per virtù di figli, illuminerà, finalmente, i graniti della storia.
No, per Mastino, non c’è fatalismo né rinunzia e men che mai ablativa lamentazione leopardiana nel pastore di Sebastiano Satta, ma un andare fra dirupi e sofferenze verso una cima più che illuminata, incoronata dalla vittoria.
I fremiti che ne tormentano e squassano lo spirito nel suo difficile andare sono incentivo e spinta determinante per l’impegno.
Nella poetica di Pietro Mastino si avverte che ogni conquista matura nel sacrificio, nella sofferenza, ma, altresì, nella luce di un impegno, che è forza etica, messaggio di civiltà.
Ecco perché, ancora una volta ripeto, per Pietro Mastino il patriarca di Sebastiano Satta non è un fatalista ma un vittorioso.
Per capire appieno Pietro Mastino, al di la dei discorsi politici dai quali prorompe possente un’umanità generosa assetata di solidarietà sociale, bisogna tornare ai suoi dialoghi con Sebastiano Satta, laddove esalta l’impetuoso ribellarsi dei cagliaritani, che scrollandosi di dosso la secolare subalternità verso gli aristocratici (ed i preti) diffondono in Sardegna la dignità della lotta per affermare la giustizia.
Nei commenti a Satta egli dirà che nei sardi quella lotta si trasfigura in un peana di vittoria come peraltro vittoriosi sono nel mondo tutti coloro che si battono per una causa giusta.
No Mastino non era né conservatore né moderato; era un poeta che amava gli umili. Era figlio del suo tempo.
La sua poesia era fatta di amore, di solidarietà, di sogno, mentre la sua oratoria, incardinata nei principi e svolta nel ragionamento, terso, rigorosamente logico, era pervaso da un afflato mistico che ne nobilitava i significati e li riportava ai valori che sono respiro vitale della nostra civiltà.
Una civiltà senza violenza, senza sopraffazione ma di trepida, feconda, vibrante solidarietà.
Ricordo dell’avv. Pietro Mastino – Nuoro – 11 dicembre 1999 – Salone Camera di Commercio
25 Gennaio 2016 by