Prefazione al libro di Rejna

Nuoro, 8 settembre 1998 – Prefazione al libro di Rejna

Nel cuore di ogni uomo palpita l’anelito all’indipendenza.
Il pensiero spazia nella vastità dell’immateriale libero da legami e subalternità prefigurando il bene – quale egli conosce ed ama – tra i valori che ne esaltano la forza vincente.
Saranno le circostanze della vita ad influenzarne poi i comportamenti affinandoli o distorcendoli a seconda delle condizioni in cui è chiamato ad operare nella società di appartenenza.
Così è per i popoli.
Nella storia del mondo la vocazione all’indipendenza ha costituito il motore primo all’esprimersi del pensiero creativo e innovatore dell’umanità. L’oppressione esercitata su singole persone o grandi collettività da arroganze individuali o dalle molteplici forme di colonizzazione e di tirannia hanno, di norma, sortito l’effetto di stimolare, al di là di ristrette minoranze servili (inaridite nei circoli del potere) i fermenti vitali dai quali fiorisce, nella coscienza degli oppressi, la consapevolezza dell’ingiustizia e la volontà di combatterla per conquistare l’indipendenza; naturale status di ogni popolo.
Pagine di storia avvincenti, da leggere con sentimento trepido e razionale intelligenza perché in esse si compendia la storia delle umane civiltà. Il popolo sardo non fa eccezione.
Direi che anzi ne costituisce un’emblematica conferma in considerazione delle forme di alta civiltà espresse quando il suo operare aveva la forza ed il respiro della libertà: la civiltà Nuragica che emerge fra le più significative ed originali nel mondo antico e quella Giudicale che – nel torbido clima di sopraffazioni e violenze medioevali – ha elaborato per i suoi cittadini ordinamenti così moderni ed avanzati da costituire punto di riferimento insuperato nella storia del diritto intermedio italiano.
Per il resto, nel corso dei secoli, – per oltre due millenni – i Sardi sono stati espropriati del governo della loro terra e del proprio futuro; con la violenza.
Dominatori diversi si sono succeduti, non sempre combattendosi fra loro, ma sempre contro i Sardi, per sfruttarne le risorse economiche e strategiche senza peraltro riuscire a spegnerne la costante resistenziale che rifiutava e rifiuta la subalternità.
La stessa appartenenza della Sardegna allo Stato italiano non scaturisce da libera scelta di popolo ma da un trattato internazionale (Londra) nel quale i Sardi furono ignorati perché considerati politicamente inesistenti, sudditi colonizzati che si potevano cedere e scambiare fra i Sovrani a seconda delle rispettive convenienze.
Così dalla corona di Aragona siamo passati a quella di un Leopoldo d’Austria che ci ha poi ceduti al Principe di Piemonte che ci ha accettati, o meglio, subiti, (posto che si attendeva la Sicilia) per la sola considerazione che con il possesso del Regno sardo da principe diventava re. La nostra italianità è passata così attraverso l’umiliante grettezza del militarismo piemontese. La condizione di devastante miseria in cui vivevano le popolazioni si è ulteriormente aggravata per lo scatenarsi di un banditismo – per l’innanzi non così virulento – armato dai nuovi e vecchi governanti al solo scopo di costringere la nobiltà spagnola a lasciare libero il campo all’insediamento dei nuovi padroni: l’aristocrazia piemontese.
L’illusione di superare la subalternità con uno stratagemma giuridico-costituzionale quale “l’unione perfetta” fra Sardi e Piemontesi, patrocinata dalla cosiddetta classe dirigente sarda nel 1848, così come il confluire, qualche anno dopo, nel Regno d’Italia (succeduto dopo sette anni a quello di Sardegna), ha aperto al nostro popolo solo spiragli formali senza determinare sostanziali modifiche della condizione di miseria, sudditanza ed emarginazione.
Proprio gli anni immediatamente seguenti al costituirsi del Regno d’Italia ha messo in luce la contraddizione connaturata ad una statualità nella quale il potere d’imperio sia gestito in termini territorialmente e socialmente squilibrati.
Lo Stato si definisce infatti quale organizzazione del potere legittimo; ove l’esercizio di questo sia monopolio di alcune regioni con esclusione – o scarsa incisività – di altre, ne deriva che le prime saranno dominanti, le altre dipendenti.
È quanto avvenuto ed ancora oggi avviene in Italia in virtù dell’organizzazione costituzionale vertical-centralistica del potere; le decisioni sono assunte da maggioranze territorialmente definite a danno di minoranze formalmente investite di pari diritti ma nei fatti subalterne alle prime perché numericamente ininfluenti nel momento formativo della volontà legislativa e programmatoria del Parlamento.
È così avvenuto che una delle prime decisioni assunte dal neonato Regno d’Italia è stata la istituzione delle barriere doganali che ha costretto le popolazioni contadine del Sud Italia (e quelle delle regioni più deboli del Centro) a diventare coattivamente, mercato di consumo delle produzioni parassitarie ed antieconomiche (rispetto alle produzioni internazionali concorrenti) del nascente apparato industriale insediatosi nell’area padana. Il risultato è ormai storia: dissanguamento finanziario del Sud, disoccupazione, emigrazione, analfabetismo, precarietà sanitaria, diffusa mancanza d’infrastrutture essenziali allo sviluppo civile ed economico. Danni che connaturati alla forma dello Stato italiano, dispiegano ancor oggi devastanti effetti. Basti la considerazione che al Nord è scomparsa la disoccupazione mentre nel Sud sta diventando problema socialmente esplosivo.
La risposta ad una situazione che minaccia di diventare ingovernabile è riconducibile quindi alla forma che assume l’istituzione dello Stato; se questo non garantisce parità reale di diritti, condanna alcune regioni alla dipendenza privilegiandone altre alla dominanza.
Certo gli aspetti economici non esauriscono i temi della convivenza fra le componenti territoriali ed umane del paese.
La diversa origine nazionale, culturale e di lingua; di usi, costumi, tradizioni ed esperienze storiche giocano rilevante ruolo nei processi di aggregazione, o dissoluzione degli stati. Riflettendo su tali temi si constata come la libertà -essenziale per ogni popolo – non contrappone i diversi ma ne favorisce il dialogo, la collaborazione e la solidarietà. Esistono perciò stati multinazionali nel cui territorio sono parlate lingue diverse e si praticano diverse fedi religiose ma il valore dell’unità è principio ben saldo ed irrinunziabile per tutti. Basti pensare alla Svizzera e, per altri versi, agli Stati Uniti d’America.
Noi Sardi, entrati nella storia d’Italia in virtù di coazione, ne siamo oggi componente attiva e consenziente, seppur duramente critica, in virtù della partecipazione del nostro popolo allo storico dramma della prima Guerra mondiale.
Il sangue generosamente versato dai Sardi ha sublimato un affratellamento con i combattenti delle altre regioni, maturato nel sacrificio vissuto ed accettato in vista di un’Italia profondamente rinnovata, capace di riconoscere ed amare i suoi cittadini cancellando privilegi ed emarginazioni.
Eloquenti e profonde sono in questo senso le riflessioni, divenute bandiere di lotta politica, di Attilio Deffenu, Emilio Lussu, Camillo Bellieni, Luigi Oggiano, Dino Giacobbe ed una pleiade di tanti altri politici che dopo aver scritto, con i conterranei sardi della Brigata Sassari, mitiche pagine di eroismo, hanno chiamato i Sardi alla lotta politica per fare dell’Italia un paese realmente democratico nel quale il potere, lasciando i vertici piramidali del privilegio, si diffondesse nel territorio investendone le popolazioni attraverso le istituzioni regionali finalmente autonome.
È stata una stagione esaltante che ha visto la mobilitazione delle masse popolari sarde decise a conquistare la soggettività politica perduta nei secoli e diventare così protagoniste di governo capace di progettare e realizzare futuro.
Va sottolineata l’ampia prospettiva, il vigoroso equilibrio e la nitida intuizione storica che ha guidato gli animatori di questo movimento giustamente definito di liberazione nazionale, considerata dai suoi animatori non traguardo ma base essenziale per concorrere a realizzare una moderna democrazia fondata sull’Italia repubblicana, legittimata dal consenso attivo e solidale delle autonomie regionali operanti all’interno della più vasta federazione europea.
Per questi obiettivi i «Sardisti» lottavano negli anni Venti. L’Europa è giunta agli stessi traguardi ideali con un ritardo di oltre mezzo secolo e dopo un secondo e più devastante conflitto mondiale.
Indipendenza e libertà sono aspetti diversi dello stesso valore universale. La «libertà» si configura quale sfera al cui interno si esplicano i diritti dell’uomo, l’«indipendenza» quella dei popoli.
D’altra parte il tumultuoso sviluppo delle tecnologie in ogni campo dell’umano operare, soprattutto nel multiforme settore delle comunicazioni e dei conseguenti rapporti internazionali, articolati e diffusi a maglie sempre più strette e globalizzati, ha favorito il formarsi del cosiddetto villaggio globale governato da un sistema politico-economico di reciproci condizionamenti mai prima sperimentato nella storia del mondo.
La competizione internazionale ben raramente si propone l’annientamento del concorrente perché la crisi di questo, lungi dal giovare al vincente, rischia di coinvolgerlo e di strangolarlo. Appare sempre più chiaro che tutti abbiano bisogno di tutti.
La crisi che si sviluppa nell’angolo più sperduto del mondo ferisce gli equilibri politico-economici globali con ricadute a domino che suscitano allarme e talvolta panico in un sistema di cerchi concentrici difficilmente controllabile. Certo, tutti abbiamo bisogno di tutti, ma perché ciascuno possa dare, nella pienezza delle sue potenzialità, il proprio contributo, deve disporre di “soggettività politica di governo” contando nel contempo sulla solidarietà dei soggetti con i quali intesse i suoi rapporti.
Il nostro tempo va quindi caratterizzandosi dal formarsi di strutture politico istituzionali sempre più vaste all’interno delle quali emerge la ricchezza delle diversità per l’innanzi appiattite e in parte cancellate dai poteri centralizzati degli Stati Nazionali.
Il sistema prefigura istituzioni dotate di forte autonomia decisionale nel quadro d’incisive reciproche interdipendenze.
L’equilibrio fra impulsi così vitali e contraddittori si attesta nella competizione volta ad intensificare l’interscambio sia economico che culturale.
Un esempio emblematico di questa moderna vocazione all’integrazione fra istituzioni indipendenti, divinamente intuita dai sardisti negli anni ’20, è la costituenda Unione Europea nella quale Stati per l’innanzi costretti a convivenza precaria – frequentemente interrotta da vampe di guerra – oggi, senza rinunziare alle rispettive indipendenze, sono impegnati a dar vita ad uno Stato Federale che garantendo l’autonomia di ciascuno, a ciascuno garantisce la forza e la solidarietà dell’insieme.
La via maestra, per la Sardegna è quella, dell’autonomo operare dello Stato Sardo nel quadro dello Stata Federale Italiano, partecipe della moderna civiltà democratica dell’Unione Europea. In tale contesto il popolo sardo dovrà dispiegare appieno le sue energie creative quale soggetto attivo ed incisivo di politica regionale e continentale, diventando così protagonista di Storia.