Convegno su Giovanni Battista Tuveri

5 dicembre 1987

Ho sentito con grande gioia intellettuale una parte del dibattito ieri, stamane questo interessantissimo, approfondito discorso sull’opera, sul pensiero, sull’insegnamento di Tuveri che ha proposto il prof. Contu. Mi rammarico di aver perduto le altre relazioni, gli altri interventi, e di non poter neppure fermarmi questa mattina, perché altri impegni mi chiamano in altra sede, alla Maddalena, per un appuntamento culturalmente, ma anche politicamente e operativamente non meno importante, quale il premio cinematografico Solinas, attivato dalla Giunta regionale.
Oggi si celebra per la terza volta, ma ha già ottenuto riconoscimenti nazionali ed internazionali di tale rilievo, per cui i film segnalati e premiati, qualunque cosa ne pensi chi non è d’accordo, hanno ottenuto i massimi riconoscimenti della critica italiana e internazionale. Il film premiato dalla giuria proposta dalla Regione ha ottenuto il premio Leone d’oro di Venezia.
Naturalmente, sarà un approccio politico quello che darò ai temi affrontati in questa sede. Essendo questa non solo la mia veste istituzionale, ma la mia vocazione e formazione culturale.
È chiaro che, parlando di federalismo, si pone al centro dell’attenzione il concetto stesso di stato, su quale legittimazione lo stato può trarre motivo di esistere e come storicamente sia andato definendo nella forma in cui, oggi, lo viviamo. È lo stato nazionale, unitario, che si va aggregando, nella storia, intorno al concetto primigenio di nazione.
Solo che, per essere brevi in questo concetto, si sono andate affermando, nello stato, sono minoranza, ma che hanno finito col prevalere e con l’informare di se, rendendola coerente ai propri interessi, la struttura stessa dello stato. E si capisce, allora, perché questi stati sono centralisti, perché hanno bisogno di un potere verticistico che riassuma tutte le capacità decisionali in un piccolo gruppo di vertice, in istituzioni verticalizzate, proprio perché gli interessi che si sono andati incrostando intorno a questo tipo di stato debbono difendersi da questo bisogno di contare, di soggettività politica delle altre componenti culturali ed economiche, nelle quali lo stato stesso si articola. Ecco perché il concetto di stato non è neutrale di per sé, stato non è garanzia in assoluto, non è ordinamento e legittimazione oggettiva. Ma è l’espressione storica di un affermarsi di poteri che hanno finito col rendere subalterni altri interessi.
Il potere, lo ricordava il prof. Contu, appartiene al popolo. La sovranità popolare deve istituzionalizzarsi per essere esercitata. Deve trovare, attraverso l’ordinamento, le forme e le procedure per estrinsecarsi e diventare un fatto non solo politicamente ma giuridicamente possibile.
Tutto questo non è possibile negli stati unitari e centralisti. Il potere territorialmente diffuso significa il potere democratico, che coinvolge la grande parte dei cittadini e l’istituto primigenio e il comune, è la struttura che raccoglie la comunità (Contu, lo ricordava nelle parole di Tuveri), ma nella visione di valutazioni comparative con altre esperienze statuali democratiche, federaliste e già operanti, allora, in Europa. I cantoni svizzeri ad esempio, dotati di poteri, di strutture, di strumenti che sono, ancor oggi, impensabili nella democrazia italiana, che eppure si dice, ma è ben lontana da realizzarsi, regionalista.
Perché, lo ricordava molto acutamente il prof. Contu, il regionalismo italiano vive questa incoerenza profonda, questa contraddizione intima e devastante di un potere che è regionalista in periferia, ma centralista ai vertici. Un potere che delega, decentra alle regioni una serie di capacità decisionali che, normalmente, sono di contenuto squisitamente amministrativo. E1 un potere che si articola, sul piano esecutivo ma non decisionale, nel territorio, riservando a sé, al Governo, al Parlamento, ad altre istituzioni. Violentemente centralistica, nella quale prevale la nazione dominante fra le nazioni inglobate nello stato. Basterebbe : fare il conteggio di parlamentari di alcune regioni per capire come sia letteralmente impossibile rovesciare i rapporti di forza, che si trasformano dall’ambito squisitamente politico in quello economico. In modo che, in genere, la nazione dominante, in quanto espressione non solo di una cultura, ma anche di interessi, finisce con’ l’essere dominante sul piano’ economico, mentre le altre vengono marginalizzate e rese subalterne, prima di tutto sul piano culturale e poi sul piano economico.
E quando si va rivendicando un ruolo, una soggettività politica, propria ed autonoma, immediatamente insorgono le voci dei difensori della patria messa in pericolo da spinte dispersive, disgreganti, separatiste, quando non sia pure in toni attenuati, di semiterrorismo.
Ebbene, tutto questo appartiene alla nostra esperienza quotidiana. Chi vi parla ha avuto l’avventura, e perché non 1′ onore di scontri durissimi sui giornali italiani per avere difeso certe linee di un’autonomia dai contenuti reali. Non amo molto le distinzioni che il vocabolario mette a disposizione del politico: indipendentismo, autonomismo, statualismo.
Importanti sono i contenuti dei poteri che vanno riconosciuti alla struttura che. forma lo stato, perché, in uno stato regionalista, il momento essenziale che esprime lo stato è la regione. Perché lo stato si articola nelle regioni, si legittima nelle regioni, perché nelle regioni è il territorio dello stato. Nelle regioni è l’ordinamento dello stato. Nelle regioni vive il popolo dello stato. Il governo centrale non è lo Stato. E’ un gruppo di persone. Non è il popolo dello stato. Non è il territorio dello stato. Non è 1’ordinamento. È la gestione dello Stato. È un momento funzionale al servizio dello stato. E, invece, ne è il padrone, che determina, che subalterna lo stato.
Ecco che allora il federalismo, l’autonomismo cominciano a diventare da concetti culturali . fatti politici rilevanti, sui quali il confronto deve essere serrato non generico, non evasivo, non demagogico, perché si tratta di problemi profondi, reali, concreti, sui quali si gioca il destino della gente.
Ma che significato ha parlare di Europa? Ho ascoltato, affascinato dall’eleganza del porgere, ma soprattutto della ricchezza dei contenuti, gli interventi che si sono susseguiti in questo convegno. Dalla stessa relazione introduttiva del prof. Sorgia, che si interrogava sul quando gli europei hanno preso coscienza di essere tali, e tutta la peregrinazione illuminata nel seguire le diverse fasi storiche, dal Sacro romano Impero di Carlo Magno alla divisione di questo tra Lotario Pipino e gli altri, e poi le diverse fasi: Comuni, Signorie, Impero e Chiesa, lotta per le investiture, momenti aggreganti o disgreganti, ma interessi sostanziali dell’Europa ad operare unitariamente sui grandi temi dell’economia col vicino oriente, che poi diventerà la forza islamica che minaccia la repubblica o la res pubblica cristiana. Tutte cose di un interesse straordinario che arricchiscono il patrimonio di cultura, conoscenza, di riflessione. Interrogarci sulle origini ci da maggiore coscienza del presente e della stessa prospettiva. Tuttavia, mi chiedo: è mai possibile ipotizzare l’Europa federale se prima non la costruiamo, qui, cominciando da casa nostra? Non si può costruire il tetto senza fare prima le fondazioni e i muri che sosterranno questo tetto.
L’Europa è un obiettivo finale. Senza un regionalismo profondo, vissuto, partecipato, convinto, esercitato nel concreto, l’Europa diventa un fatto di vertice, quale è già. L’Europa, oggi, che cos’è? È l’aggregazione degli interessi che sui raccolgono nel triangolo che va da Milano a Parigi, a Bonn; gli interessi industriali della Germania, quelli agricoli della Francia, con la penalizzazione devastante di tutto il grande sud dell’Europa.
Per noi l’Europa, sino ad oggi, è un sistema di limiti che
ci impedisce di dare i soldi ai nostri agricoltori, perché
turbiamo il mercato; che ci impedisce di aiutare le industrie
 in crisi (la 66). Piccole strutture produttive, che
assicurano un minimo di presenza dell’economia sarda sui
mercati nazionali, debbono vincere le diseconomie di un’insularità che lo stato ancora non ha risolto con i grandi te
mi della continuità territoriale. Qualunque cosa disturbi
gli interessi costituiti diventa un pericolo da contrastare.
Perché l’Europa diventi la patria dei popoli, perché diventi
veramente una forza, debbono parteciparvi di pieno diritto
le regioni.
Come ricordava Matteo Piredda, l’assessore regionale all’Agricoltura non poteva andare a difendere la linea di un’incentivazione agli agricoltori sardi, colpiti da una calamità naturale e da un’altra qualunque diseconomia, perché andare a parlare col centro della concorrenza in sede di Mercato comune europeo significava compiere un atto di diritto internazionale, e quindi, doveva essere il ministero degli Esteri. E anche sui problemi più elementari ci contendono il diritto a una soggettività politica che, direbbe il buon Tuveri, diritto naturale delle genti, jus gentium, che ci viene contestato.
In un recente convegno, a Venezia, dei presidenti delle Regioni e dei presidenti dei Consigli regionali col ministro degli Esteri, questa linea è stata sconfitta. Il ministro degli Esteri ha riconosciuto il pieno diritto delle regioni a poter gestire questa materia in un rapporto diretto con l’Europa.
Ma la verità è che non si tratta solo di questo: le regioni hanno diritto a una rappresentanza esterna, non già per compiere atti di diritto internazionale, ma, perlomeno, per compiere atti internazionali, che attengono al commercio, a tutta una serie di iniziative che portano le economie delle regioni italiane a integrarsi fra di loro, con le altre regioni d’Europa.
La verità è che gli stati, così come si sono storicamente formati, bloccano questo movimento, perché dovrebbero cedere una parte della loro sovranità al potere sovranazionale europeo, da un lato, e un’altra parte del loro potere alle regioni. Gli stati hanno, quindi, questi due pericoli che attentano alla loro capacità decisionale e la loro potere, così come oggi viene esercitato al livello di alte burocrazie centrali, di grandi segreterie politiche, di centrali dell’economia, che trovano più facile definire con un ministro una vasta operazione finanziaria o economica, la concessione per una privativa di commercio internazionale in un determinato settore e con un determinato stato.
È più facile parlare con un ministro e definire con un direttore generale anzichè fare i conti con il potere reale del popolo, articolato nel territorio, attraverso le istituzioni che il popolo rappresenta. È più facile risolvere nei vertici. Per qualsiasi iniziativa da parte delle regioni, l1unità dello stato è minacciata. È minacciata la patria, la bandiera, le sacre frontiere. Niente poteri. Bisogna difendersi. C’è un riflusso centralista, violentissimo. Quale Europa andremo costruendo senza il popolo? Lo faremo con i vertici, ma non con il popolo. L’Europa di costruisce col consenso. L’Europa può emergere come forza unitaria se avrà il consenso degli europei prima di tutto e se avrà i poteri sovranazionali. Quindi, da un lato, l’Europa che richiama poteri sovranazionali e riduce le sovranità statuali, dall’altro, le regioni che reclamano dagli stati quella parte di potere decisionale e di organizzazione dello sviluppo che, oggi, è più facile governare dal centro.
È più facile portarsi via i soldi risparmiati dai sardi attraverso le banche governate dalla Banca d’Italia e non dal potere regionale. È più facile strutturare i flussi finanziari ed economici, e, certo, impedire anche il sistema dei collegamenti della Sardegna, attraverso un vertice che riceve ordini da Roma, anzichè dal potere regionale. Si dice: ma, con quali soldi, i sardi? Perché, rispondiamo, con quali soldi la Tirrenia gestisce questa società di navigazione? La gestisce con i soldi che ricava dalle tariffe e col contributo dello stato. E non si capisce perché il contributo dello stato non dovrebbe venire se la società fosse a Cagliari anzichè a Napoli.
Forse che Cagliari è qualcosa che minaccia l’unità dello stato mentre Napoli lo rappresenta? Se questo è, buon pro a questi patrioti che dalla Sardegna e dalle altre parti sciolgono elegie ed inni a favore di questo tipo di stato. Io non sono d’accordo. Vi saluto e vi ringrazio.

Mario Melis, Presidente della Giunta Regionale