Lettera al Sen. Peppino Fiori – Unione Sarda – anni ’80

Caro Direttore,
sono costretto a chiedere nuovamente ospitalità per rispondere alla replica che il Sen. Peppino Fiori ha fatto seguire alla mia messa a punto in ordine alla collocazione dei Parlamentari Sardisti nel vasto ventaglio dei Gruppi Parlamentari.
Confesso di non aver capito la replica di Fiori.
Nulla obietta circa la nostra attuale scelta volta a dar vita ad una componente Parlamentare Autonomista all’interno del Gruppo Misto – Valdostani, Sardisti, Alto Atesini e Veneti.
Riconosce la legittimità del mio richiamo all’esigenza di non esaurire la genesi del pensiero sardista a Lussu e a Mastino esprimendo anzi nei confronti delle personalità da me citate giudizi altamente positivi sul ruolo storico assolto da ciascuno di queste e sulla testimonianza morale e politica che hanno reso.
A questo punto Fiori cambia inopinatamente discorso e sostiene che Lussu e Mastino rappresentavano due diverse anime del P.S.d’Az.: il primo la bussola classista e il secondo la liberal-democratica.
Continua però Fiori assumendo che entrambi, come peraltro Bellieni, erano anti-separatisti perché, continua Fiori citando Lussu, “separatismo non è solo conservazione, ma reazione”.
Caro Fiori, perché ricorrere a questi giochetti nella polemica fra persone che si stimano?
Questo non è più un confronto dialettico che abbia il pregio del vigore vitale con il quale è possibile fare politica, costruire insieme una prospettiva, ma, soprattutto, insieme scardinare i freni storici del sottosviluppo, della subalternità culturale non meno che economica, che sociale e civile.
Ci credi così poco a quello che affermi che ci chiedi di entrare nel Gruppo del quale tu stesso fai parte, la Sinistra Indipendente, perché (così affermi) “alle buone compagnie non si rinunzia mai volentieri”.
Se siamo una buona compagnia vuol dire che non ci puoi accusare né di conservazione e tanto meno di reazione.
Poi, ti dirò, che proprio Lussu e Bellieni (e Mastino) da te citati fra virgolette, nello scrivere il programma del P.S.d’Az, nel 1920, che sarà poi approvato nello storico Congresso di Macomer, così precisano: “ove le giuste aspirazioni dovessero ancora trovare il Governo d’Italia inerte e neghittoso per incomprensione e per inconsiderata resistenza alle sue domande, il popolo sardo ritroverà in se stesso la forza, l’energia e la decisione per combattere e vincere, pur col cuore sanguinante, con altri mezzi e per altri scopi”.
Vi è in queste parole così severe e solenni un’indicazione e un ammonimento che dovrebbe far tremare le vene e i polsi a quanti fanno del Sardismo parolaio ma, di fatto, sono proni e subalterni dinanzi a tutte le prevaricazioni che Roma ha imposto e ha continuato ad imporre durante gli oltre 60 anni da che queste linee programmatiche divennero impegno morale ancor prima che politico per tutti i sardi.
È interessante sottolineare che all’enunciazione come sopra ricordata segue un punto programmatico di grande attualità “libertà di commercio o autonomia doganale”.
Lussu e Bellieni nel documento programmatico che, ripeto, sostennero e difesero ottenendone l’unanime approvazione al Congresso Costitutivo del P.S.d’Az. in Macomer, così concludono questo capitoletto: “Solo nel caso che il Governo non volesse concedere la libertà di commercio per l’intero Stato il P.S.d’Az. rivolgerà i suoi sforzi per ottenere, anche con la violenza, l’uscita della Sardegna dall’Unione Doganale come ultima possibile conciliazione negli interessi dell’Isola e quelli di un’Italia burocratica, accentratrice, sfruttatrice”.
Che ne pensa il Sen. Fiori?
Forse i sardisti sbagliavano dall’origine a voler dare contenuti reali all’autonomia e a rivendicare oltre i normali poteri amministrativi anche il Governo e la direzione dell’economia quale base essenziale per uno sviluppo non più condizionato da interessi e poteri esterni.
Interessi e poteri ancor oggi pesantemente oppressivi nella realtà politica, economia e sociale della nostra Isola.
Certo Bellieni, Lussu, Mastino e altri potevano anche pensare in modo non coincidente sui grandi temi della giustizia sociale, ma certo si trovavano d’accordo sulla necessità di non lasciare alcun mezzo atto a determinare e “rinvigorire lo spirito di classe nella convinzione profonda che si dovrà giungere ad un avvenire in cui la produzione tutta sarà dei lavoratori in un regime sociale di eguaglianza economica che sopprimerà ogni contrasto di interesse fra i lavoratori produttori”.
Queste parole evidenziano senza incertezza o ambiguità la profonda vocazione popolare del Sardismo ma altresì il forte empito di libertà che la pervade.
In queste parole è il fermento ideale dal quale nascerà il grande movimento di “Giustizia e Libertà”, una moderna forma di socialismo che rifiuta lo statalismo dogmatico e oppressivo.
Ebbene, noi in tutti i nostri Congressi, compreso l’ultimo di Portotorres, non ci siamo mai discostati, con buona pace delle grossolanità che in materia scrive nelle sue togate relazioni, il Procuratore Generale della Corte d’Appello di Cagliari, dai principi consacrati sessant’anni fa dai Padri fondatori del Partito.
Il Partito ha sempre rifiutato il separatismo come momento di rottura dei rapporti fra la Sardegna e l’Italia, mentre abbiamo sempre riconfermato il principio “dell’autonomia statuale”, nell’ambito di un patto federativo con la Repubblica Italiana e nella prospettiva di una Confederazione Europea e Mediterranea delle Regioni e delle Etnie (art. 1 dello Statuto).
I patti federativi si stipulano fra soggetti uguali aventi pari dignità e libertà dispositiva: cioè i due soggetti che intendono stipulare il patto federativo devono essere l’un l’altro indipendenti ché si creerebbe subalternità e quindi dipendenza.
Insomma, noi non vogliamo rompere con nessuno ma non vogliamo essere alle dipendenze di nessuno.
Gli Stati più moderni e civili fondano la loro democrazia su basi federaliste.
Quelli che ancora le rinnegano vivono drammi separatisti come testimoniano i baschi e i catalani in Spagna, gli irlandesi in Inghilterra, o gravi tensioni come gli alsaziani o i bretoni in Francia, i fiamminghi e i valdesi in Belgio, scozzesi e gallesi…
Creda Fiori, questo non è nazionalismo, è difesa della propria identità, del diritto naturale delle genti di essere se stesse, assolvere da protagoniste con forza e dignità al ruolo che la storia assegna a ciascun popolo al fine di realizzare nella pace e nel reciproco rispetto il progresso della grande famiglia umana.
O sarebbe nazionalismo il difendere la dignità, la libertà e l’indipendenza italiana dalla progressiva americanizzazione culturale, economica e, per tanti versi, politica?