Intervento alla Conferenza Meridionale, CGIL, Cagliari, 4-6 marzo 1987

1. La complessa questione nota come “il problema del Mezzogiorno” ha preso l’avvio sin dalla costituzione dello Stato unitario, anche se con il passare dei decenni ha assunto configurazioni differenti con la prevalenza, di volta in volta, di aspetti politici o economici, o sociali, o civili. Per non pochi studiosi e osservatori “la questione del Mezzogiorno” non sarebbe sorta o, comunque, non avrebbe assunto la gravità riscontrata, se il modello ispiratore dell’unificazione dello Stato fosse stato diverso (federale e non unitario). Comunque “la questione” è sorta, si trova radicata nella stessa storia del Regno d’Italia, prima, e della Repubblica, poi, e ciò che è più grave ancora oggi esiste e, anzi, per taluni aspetti si è aggravata.
A me pare opportuno in questa sede limitare l’analisi agli ultimi decenni, cioè il periodo che va dalla costituzione della Repubblica ai giorni nostri.
Orbene, una prima considerazione che ha importanti implicazioni è la seguente: in questi anni il problema del Mezzogiorno ha assunto contorni più definiti, è stato oggetto di una consapevolezza più generale ed è stata affrontata con impegno seppure discontinuo: certamente questo risultato va ascritto anche all’impegno dei vari “meridionalisti” che nel passato hanno richiamato l’attenzione del Paese sul problema qui in esame. Peraltro, non sempre l’ argomento è stato all’ordine del giorno delle varie forze politiche, sociali e culturali e, anzi, pare che negli ultimi anni si sia manifestata una carenza di attenzione.
Comunque, né l’impegno dei meridionalisti, né le conquiste proprie dell’ordinamento democratico, affermatosi con la sconfitta del fascismo, né altre circostanze varie, sono valse a determinare le condizioni per una congrua soluzione del “problema del Mezzogiorno”.
Se è vero che il risultato conseguito appare complessivamente insoddisfacente, e anche vero che è doveroso ricordare qualche esito positivo, in particolare nel campo della creazione di infrastrutture, degli incrementi di reddito e della diffusione della scolarizzazione: è innegabile che in questi campi si sono compiuti, nel complesso, alcuni progressi.
È certo che il Mezzogiorno appare oggi, a differenza del periodo anteguerra, sempre più integrato al resto del Paese, anche per effetto delle realizzazioni di importanti iniziative infrastrutturali nel campo dei trasporti e di una certa diffusione di attività imprenditoriali, soprattutto nelle aree del Mezzogiorno più vicine ai territori già sviluppati.
Sia ben chiaro che, come meglio preciserò più avanti, anche nei campi nei quali si è ottenuto qualche risultato il giudizio complessivo può essere appena di sufficienza mentre, in vari altri campi, il giudizio malauguratamente deve essere drasticamente negativo.
Molti sono, infatti, gli insuccessi riscontrabili e i problemi che attendono una indilazionabile soluzione ad iniziare da quello generale dell’eliminazione dell’insostenibile divario socio-economico che contrappone un’Italia sostanzialmente opulenta ad una Italia che non riesce a produrre i redditi necessari per mantenere i livelli di vita dello standard italiano ed europeo.
In questo quadro si riscontra la persistenza di molte circostanze negative, quali – per esempio – la mancanza nelle varie aree del Mezzogiorno di tessuti produttivi ampi e articolati, le carenze di infrastrutture e di servizi reali per le imprese, la sostanziale dipendenza dall’esterno per finanziamenti, tecnologie e fabbisogni di beni per le imprese e per i consumi privati.
E come dimenticare nell’ambito degli insuccessi il costo che il Mezzogiorno ha pagato al dualismo socio-economico in termini di emigrazione forzata dei suoi lavoratori, che si sono dovuti spargere nelle varie altre Regioni italiane, europee ed extraeuropee, come se fossero soggetti di una sorta di diaspora?
E come dimenticare il fenomeno dell’abbandono delle zone interne e il super affollamento delle principali città del Mezzogiorno con l’emergenza di una questione urbana che si impone all’attenzione delle cronache anche a motivo del conseguente degrado sociale e civile?
In termini economici, le precedenti indicazioni fanno emergere una situazione nella quale non si realizza il processo di accumulazione capitalistica endogena: le imprese che vi operano con propri impianti produttivi, siano grandi o piccole, pubbliche o private, nel complesso non realizzano soddisfacenti profitti, o comunque non li reinvestono in loco e, quindi, non attivano lo sviluppo economico.
2. Tuttavia, La circostanza che si deve segnalare con maggior preoccupazione è costituita dalla mancanza di un numero soddisfacente di posti di lavoro. Più esattamente, può affermarsi che tra tutte le cause del sottosviluppo caratterizzante le aree del Mezzogiorno quella della disoccupazione è la più grave e la meno sopportabile.
Il fenomeno della disoccupazione si riscontra soprattutto nella realtà del Mezzogiorno, anche se dello stesso fenomeno è investita, più in generale, l’Italia e la stessa Comunità Economica Europea.
Nel 1986 il numero dei disoccupati della CEE è stato valutato in circa 15 milioni di unità: essi hanno fatto registrare un progressivo e sensibile incremento rispetto al numero dell’anno precedente. Ma il fenomeno, nonostante la sua valenza generale, interessa in misura diversa i 12 paesi membri della Comunità e, all’interno di ciascuno di essi, le diverse aree.
La persistenza e l’aggravarsi della disoccupazione nella Comunità Economica Europea evidenziano la natura strutturale e non congiunturale del fenomeno stesso: si tratta, in effetti, di un problema le cui cause non possono essere riconducibili a situazioni contingenti, ma interessano elementi di fondo della condizione economica e politico-istituzionale europea. Per tali motivi risulta ancora più difficile prospettare soluzioni immediate e di breve periodo ad un problema tanto ampio quanto complesso.
In effetti, le politiche e i provvedimenti adottati in Italia e negli altri paesi, sono stati numerosi e di diversa natura, ma tutti hanno avuto la stessa caratteristica: l’incapacità di risolvere il problema. Infatti, nonostante le molte vie finora intraprese, i risultati raggiunti si sono limitati ad attenuare le conseguenze più gravi della disoccupazione attraverso, per esempio, la istituzione della Cassa Integrazione. Guadagno che, peraltro, pone altri problemi alla collettività, o, nella migliore delle ipotesi, si è limitato ad impedire che il fenomeno assumesse livelli ancora più drammatici. Intanto, però, il numero dei disoccupati ha continuato a crescere.
Una delle spiegazioni del fenomeno strutturale della disoccupazione più “ascoltate e ripetute” negli ultimi anni chiama in causa l’esigenza del recupero di produttività che attribuirebbe minore rilevanza al lavoro a parità del “quantitativo” prodotto: in tal modo, le macchine (o i robot) “toglierebbero lavoro” ai lavoratori i quali, pertanto, rimarrebbero disoccupati. Questa tesi viene presentata con contorno di enfasi pseudo-scientifica e ai più appare convincente: a ben vedere, essa ha un punto “tanto debole” da inficiarne la validità: non spiega i motivi per cui nelle aree mondiali nelle quali la produttività e la robotizzazione sta procedendo a ritmi non meno intensi di quelli dell’Europa occidentale (per esempio, gli USA e il Giappone) anche negli ultimi anni sono stati creati molti nuovi posti di lavoro, mentre in Europa se ne sono persi tanti.
Se tale analisi corrisponde al vero, appare molto verosimile la tesi sostenuta dai fautori dell’unificazione politica dell’Europa, i quali fanno rilevare che gli Stati europei, a causa della loro ridotta dimensione e la CEE, a causa della mancanza di un potere politico capace di un intervento incisivo, sono strutture incapaci di risolvere i grandi e complessi problemi che travagliano i sistemi socio-economici moderni, ad iniziare dalla disoccupazione.
Per una soluzione di questi problemi o, quanto meno, al fine dell’individuazione di una strategia efficace, si afferma sempre più il convincimento che occorra modificare il sistema politico istituzionale del Vecchio Continente, attraverso l’unificazione politica degli Stati.
Per quanto attiene all’Italia, sulla base di recenti dati ISTAT nel 1986 i disoccupati sono cresciuti ulteriormente raggiungendo il massimo storico.
Il fenomeno, pur avendo valenza generale, riguarda in misura diversa gli uomini e le donne e le diverse aree del territorio nazionale: il tasso di disoccupazione fa registrare delle punte massime per le donne, per il Sud e per i giovani.
La disoccupazione giovanile costituisce l’aspetto forse più allarmante del dramma della disoccupazione: un dramma nel dramma. Sono ormai alcuni milioni in Europa i giovani senza lavoro. In Italia circa 2 milioni di persone senza lavoro hanno un’età compresa tra i 14 e i 29 anni. E, in Sardegna la percentuale della disoccupazione giovanile sul totale della disoccupazione è veramente allarmante: quasi un’intera generazione è emarginata dal mondo del lavoro, senza possibilità di occupazione.
Ma, gli effetti della disoccupazione giovanile non si limitano a conseguenze negative, quali l’invecchiamento della forza lavoro, la mancanza prolungata di un posto di lavoro determina e accentua i problemi sociali, i fenomeni di violenza e i comportamenti antisociali, specie in coloro che, più vulnerabili degli altri, tendono a sostituire con i cosiddetti paradisi artificiali ciò che la società non riesce a dargli.

3- Non pare inutile interrogarsi sulle cause che possono spiegare la prevalenza degli insuccessi sui risultati positivi nell’impegno profuso negli ultimi decenni per risolvere il “problema del Mezzogiorno”.
Innanzitutto, corre l’obbligo di ricordare che il problema ha evidenti implicazioni nella sfera degli interessi economici, sociali e politici e che la sua mancata soluzione fa emergere l’avvenuta prevalenza degli interessi antagonistici rispetto agli interessi dei fautori del superamento del dualismo. Più esattamente i centri di potere, portatori della tutela degli interessi delle aree italiane centro-settentrionali, sono risultati vincenti nella conquista delle posizioni preminenti nelle Istituzioni politiche, sociali ed economiche, come nella Pubblica amministrazione e, dato il vantaggio posizionale, hanno perseguito o assecondato la prevalenza delle istanze oggettivamente indifferenti, o non di rado, ostili alla lotta agli squilibri socio-economici territoriali.
Nella stessa configurazione reale delle istituzioni politiche gli interessi dominanti hanno influito in modo da determinare le condizioni per un forte “controllo” delle scelte decisionali e delle relative attuazioni: hanno determinato una configurazione statale “unitaria, accentratrice e sostanzialmente autoritaria” prima nella forma e nella sostanza (con lo statuto albertino) e, poi, con l’avvento della Repubblica regionalista solo nella sostanza e nella prassi col rallentamento dei processi di decentramento e valorizzazione delle Regioni e degli altri Enti locali, a dispetto delle stesse prescrizioni costituzionali.
In altri termini, anche negli anni più recenti è stata imposta una “condotta della cosa pubblica” che ha posto in posizione marginale la stessa autonomia delle comunità locali anche per le materie di loro esclusivo interesse.
Corrispondentemente, è stata negata rilevanza alle specificità locali, alla peculiarità dei loro problemi e nell’ipotesi implicita (ma, talvolta pure esplicitata) che al di là della “antica questione del Mezzogiorno” l’Italia sia pur sempre una Repubblica che opera una stessa “ragione di stato”, uno stesso tipo di interessi vitali, che non potevano essere messi in discussione sulla base di differenze territoriali, che – tra l’altro – venivano ulteriormente dequalificati con l’appellativo di “localistiche”. Così, di fatto spesso si è verificato che gli interessi “localistici” delle aree protette del centro-nord diventavano “interessi nazionali”, mentre gli interessi “localistici” delle aree del sud e delle Isole rimanevano “localistici” e, in quanto tali, non degni di tutela e nelle prese di posizione più “razzistiche”, persino oggetto di disprezzo.

4. Data tale situazione non fa meraviglia che i modelli di sviluppo adottati in sede politica e realizzati in pratica per l’eliminazione degli squilibri socio-economici siano stati più funzionali allo sviluppo delle aree del centro-nord o, se si vuole, del Paese nel suo complesso anziché alle aree del Mezzogiorno alle quali erano rivolte. Come è noto, gli interventi sono stati realizzati soprattutto nel comparto della petrolchimica e della metallurgia di base per il tramite di grandi insediamenti industriali che potevano essere affidati solamente ai grandi gruppi polisettoriali pubblici e privati e che di fatto escludevano l’impegno diretto e massiccio delle preesistenti imprese locali o di nuove piccole o medie imprese, che si fossero localizzate nei territori oggetto d’intervento: queste imprese minori potevano bensì aspirare ad attività di subfornitura, di manutenzione e di assistenza alle grandi imprese che acquisivano per i loro investimenti le norme messe a disposizione dello sviluppo del Mezzogiorno.
La logica del sistema di incentivi prescelti (essenzialmente basati sui finanziamenti a tasso agevolato e sui contributi a fondo perduto) concorre a privilegiare fortemente le grandi iniziative industriali la cui predilezione era anche giustificata da modelli teorici di “sviluppo squilibrato”.
Il risultato delle indicate scelte è noto e merita solo un cenno per completezza di argomento. Creazione di cattedrali nel deserto”, persistenza del sottosviluppo e della dipendenza, crescita inarrestabile della disoccupazione.

5. Pare opportuno, a questo punto, richiamare qualche aspetto particolare dell’intervento globale che si è estrinsecato per il tramite della Cassa per il Mezzogiorno e che si ripropone, seppure con forme e strumenti in parte diversi con la legge n. 64/1986.
Uno dei principali aspetti dell’esperienza fin qui compiuta è certamente costituito dall’orientamento di base delle politiche dello Stato e, in concreto, del Bilancio annuale e pluriennale che le quantificano e le qualificano.
È certo che politiche e Bilancio dello Stato non hanno mai avuto quell’orientamento meridionalistico che è indispensabile per realizzare effettivamente un impegno positivo per la eliminazione degli squilibri socio-economici. Di norma le politiche e i Bilanci non hanno rispettato i vincoli di compatibilità con l’impegno per il superamento degli squilibri, e, spesso, l’indicato problema della compatibilità non è stato neppure posto.
Corrispondentemente, l’intervento a favore del Mezzogiorno è stato considerato quasi “a latere” della politica dello Stato “residuale” e “straordinario”, come se non rientrasse negli interessi generali e negli impegni normali e complessivi dello Stato l’eliminazione delle differenze socio-economiche tra le diverse aree del Paese.
In più non poche volte, le norme destinate al così detto intervento straordinario sono state utilizzate per l’esecuzione di compiti istituzionali che si sarebbero dovuti adempiere anche se fosse mancato “l’intervento straordinario”. Emblematico è, a tal proposito, il ricorso fatto alle risorse del Fondo europeo di Sviluppo Regionale a copertura finanziaria di impegni di investimenti assunti direttamente dalle PP.SS.
Ed è pure significativo ricordare che talune provvidenze concesse alle imprese, indipendentemente dalla loro ubicazione, nel caso del Mezzogiorno vengono finanziate con le risorse del c.d. “intervento straordinario” (per es. la fiscalizzazione degli oneri sociali).
Su un’analisi tendente ad individuare le disfunzioni proprie dell’intervento straordinario sperimentate fino ad oggi, sarebbe necessario prendere in considerazione, tante altre circostanze negative, oltre a quelle indicate sommariamente in precedenza. In questa sede peraltro non è possibile un’analisi puntuale delle stesse ma, comunque, non ci si può esimere dal citare quelle che hanno avuto influenze particolarmente negative: dalle inadeguatezze burocratiche che hanno ritardato l’erogazione dei finanziamenti e dei contributi ai ritardi nell’emanazione di norme applicative delle leggi e, più in generale, delle decisioni richieste, dalla complessità di talune procedure in essere per l’ottenimento delle provvidenze al non efficace sistema informativo relativo alle stesse, dalla rigidità di norme, regolamenti, procedure, al centralismo di talune importanti istituzioni delegate alla concessione delle provvidenze.
Su queste circostanze e su altre qui trascurate per brevità occorre dire che hanno concorso a penalizzare le richieste delle imprese minori e delle imprese locali, e, quindi, a rendere ancora più remota la possibilità dello sviluppo autopropulsivo endogeno.

6. Le considerazioni precedenti credo che siano sufficienti per giustificare la richiesta di profonde modifiche della logica e della prassi sulla quale deve basarsi il nuovo intervento a favore del Mezzogiorno: deve far perno su alcune condizioni basilari che mi sforzerò di indicare sinteticamente benché ognuna di esse richieda ampia analisi e numerose specificazioni.
Occorre, prima di tutto, riuscire a collocare l’impegno per il Mezzogiorno nell’ambito dei processi storici in corso, ossia è indispensabile valutare la compatibilità degli interventi programmati a favore del Mezzogiorno con l’attuale livello di sviluppo scientifico e tecnologico dell’internazionalizzazione dell’economia, della progressiva liberalizzazione degli scambi, dell’integrazione europea, ecc..
Ciascuno di questi processi è fonte di vincoli e condizionamenti negativi e di opportunità e, comunque, certamente non è neutrale rispetto a qualunque tipo di intervento a favore del Mezzogiorno.
Una prima importante implicazione della precedente considerazione è costituita dal fatto che il superamento degli squilibri territoriali non può essere considerato solo corrispondente all’interesse delle popolazioni del sud d’Italia, bensì rientra nell’interesse oggettivo di tutto il Paese e, più in generale, della Comunità Economica Europea.
La coesione interna, economicamente conseguibile con la eliminazione degli squilibri socio-economici territoriali avrebbe almeno i seguenti effetti positivi:
a – rinforzerebbe l’economia europea complessivamente considerata e la renderebbe più competitiva;
b – solleverebbe la Comunità Europea dagli impegni per interventi di mantenimento di livelli di vita soddisfacenti a favore delle popolazioni delle aree sottosviluppate che non riescono a ottenere livelli di prodotto sufficienti per i loro fabbisogni;
c – eliminerebbe da un lato, la tendenza progressiva al depauperamento e al degrado delle aree meno sviluppate e, dall’altro lato, al congestionamento che già rende “indivisibili” le aree più sviluppate.
Ovviamente, quanto notato a proposito della Comunità Economica Europea nel suo complesso vale anche a proposito dei singoli Stati nei quali sono più marcati gli squilibri socioeconomici ad iniziare dal nostro Paese. Il riferimento alla Comunità Economica Europea ha anche il significato di affermare che, a ben vedere, il problema degli squilibri socio-economici territoriali è sempre meno un problema di esclusiva competenza dello Stat nel quale si manifestano e diventano sempre più un problema europeo, anche a motivo delle ingenti risorse umane, tecnologiche, materiali e finanziarie che occorrono per la sua soluzione.
È certo comunque che l’eliminazione o l’attenzione dei divari socio-economici deve vedere un coinvolgimento fattivo e coordinato della Comunità Economica Europea, dello Stato, delle Regioni e degli altri Enti locali e, in questo ambito, all’Ente regionale deve essere attribuito il ruolo di punto di riferimento fondamentale per lo sviluppo e, quindi, di agente primo della programmazione.
Il motivo di questa richiesta risiede nel fatto che la Regione più di ogni altro Ente pare abbia la dimensione più adeguata sia per il miglior apprezzamento delle specifiche esigenze di sviluppo del territorio sul quale intervenire, sia per il necessario coordinamento delle iniziative verso l’alto (Stato e CEE) e verso il basso (altri Enti locali).
In altri termini le Regioni possono e devono assumere la funzione di Enti di base nella determinazione dello sviluppo e non devono essere semplicemente destinatarie dello stesso. Questa esigenza potrebbe essere soddisfatta più adeguatamente per il tramite di una preliminare modifica istituzionale tanto della Comunità Economica Europea (è indispensabile quanto inderogabile una sua qualificazione di tipo politico federale o, se si vuole, prefederale), quanto del nostro Stato il cui Senato dovrebbe essere formato sulla base di rappresentanze regionali paritetiche per diventare, pertanto, un “Senato delle Regioni”; in tal modo ogni politica statale e lo stesso Bilancio, sarebbero certamente più compatibili di quanto lo siano oggi con le esigenze della lotta agli squilibri territoriali e gli interventi perderebbero quella qualifica negativa di straordinarietà, marginalità, sostitutività che hanno avuto nell’esperienza passata.
Solo in tal modo si può conseguire un’altra indispensabile condizione per rendere più probabile il superamento degli squilibri territoriali, cioè la specificazione delle iniziative di sviluppo in relazione alle specifiche condizioni delle aree nelle quali occorre intervenire. È infatti indispensabile abbandonare l’errata supposizione che esista omogeneità delle condizioni delle aree del Mezzogiorno. Al contrario, sono individuabili delle differenze notevoli non solo con riferimento allo stesso livello di sviluppo o, meglio, di sottosviluppo, ma soprattutto con riferimento alle specifiche caratteristiche. La Sardegna, per esempio, risente in modo molto grave, e molto più di ogni altra Regione del Mezzogiorno, della sua specifica concatenazione di insularità, come della sua specifica connotazione di scarsa densità demografica, come della sua specifica condizione di marcata carenza del sistema delle comunicazioni interne. Di contro, l’Abruzzo, per esempio, costituendo la Regione del Mezzogiorno più vicina alle aree sviluppate del Centro-Nord si avvantaggia in qualche modo del contiguo sviluppo e comunque già da oggi ha una base imprenditoriale di una certa ampiezza e articolazione.
Data l’esistenza di profonde differenze è evidente che occorre trovare strumenti, modalità e risorse differenti in relazione alle specifiche condizioni di base.
Ma, l’esigenza della specificazione dell’intervento non fa venir meno di certo il comune interesse di tutte le Regioni del Mezzogiorno di lotta compatte perché il problema dell’eliminazione del sottosviluppo assume centralità nell’ambito delle scelte politiche dello Stato e della Comunità Economica Europea.

8. Un’altra inderogabile condizione di base è costituita dalla possibilità di utilizzare in loco tutte le risorse esistenti nelle aree da sviluppare: nella passata esperienza di norma ciò non è avvenuto in quanto un notevole quantitativo di risorse umane, materiali e finanziarie sono state trasferite dalle aree sottosviluppate e che pertanto avevano un enorme bisogno di tali risorse alle aree già sviluppate. Mi riferisco alla piaga dell’emigrazione, all’altrettanto grave fenomeno del trasferimento nelle aree del Centro-Nord di risparmio creando nelle aree del Mezzogiorno, e anche alla massiccia esportazione dal Sud e dalle Isole di materie prime e di semilavorati che potrebbero essere trasformati in loco, e, quindi, concorrere con il valore aggiunto del prodotto finito a migliorare la sua condizione economica.
Come è noto, si tende a dare una giustificazione del drenaggio di risorse affermando che esse si trasferiscano “dove l’impiego può essere più remunerativo”: si tratta di una giustificazione di comodo di un approccio che è funzionale alla perpetuazione degli squilibri territoriali nella supposizione moralmente condannabile e politicamente inaccettabile per la quale la supposta fortuna di taluni può avvenire a spese dei più deboli grazie all’atteggiamento passivo delle pubbliche istituzioni.

9. Nella prospettiva di un congruo intervento dei poteri del la CEE, dello Stato delle Regioni e degli Enti locali per perseguire l’obiettivo dell’eliminazione degli squilibri socio-economici, pare possibile indicare alcune esigenze prioritarie e di immediata attuazione.
Innanzitutto è indispensabile che le imprese pubbliche, ad iniziare dalle Partecipazioni Statali, assumano la qualifica complessiva di agenti operativi, per lo sviluppo, senza che questo significhi mortificazione o esclusione delle imprese private per lo sviluppo ordinato del Vecchio Continente e, per quanto ci riguarda direttamente, del nostro Paese.
In questo ambito è indispensabile riconsiderare con attenzione il problema delle “risorse di intervento” dell’impresa pubblica nel Mezzogiorno, problema che è stato fonte di rilevanti mistificazioni in quanto, non di rado, neppure le esigue quote, determinate sulla base di una considerazione più o meno aritmetica della popolazione esistente, nel Mezzogiorno rispetto al Centro Nord hanno originato effettivi investimenti nelle aree “di riserva”.
Al contrario, occorre capovolgere i termini del problema nel senso che le imprese pubbliche di norma devono realizzare i loro investimenti nelle aree da sviluppare salvo alcune iniziative di completamento e ammodernamento nell’ambito degli stabilimenti già esistenti al Nord. Solo così l’impresa pubblica può diventare effettivo strumento di sviluppo ordinato del Paese e, quindi, essere recuperata alla sua vera vocazione di veicolo per la realizzazione della programmazione.

10. Tra i tipi di investimento ai quali occorre attribuire priorità sono certamente da segnalare quelli per il completamento del sistema delle infrastrutture e soprattutto quelli per l’ammodernamento delle stesse.
In questo campo, da oltre un decennio, si riscontra una sostanziale stasi degli investimenti nel Mezzogiorno e ciò ha implicato la perpetuazione di alcune gravi carenze segnatamente nel campo delle strutture scolastiche, nell’ambito agrario, in taluni centri urbani, ecc. ma è anche da rilevare una sorta di obsolescenza complessiva che nel frattempo si è verificata rispetto alle infrastrutture realizzate negli anni ’50 e negli anni ’60 per cui si richiedono imponenti interventi di ammodernamento. D’altro canto, la decisione assunta nell’ambito della CEE, e ratificata dagli Stati, di realizzare il mercato unico europeo entro il 1992, determinerà imponenti iniziative in sede comunitaria per la realizzazione di reti stradali, di sistemi di trasporto, di impianti di telecomunicazione: è indispensabile evitare il rischio di un’ulteriore emarginazione del Mezzogiorno rispetto a questi obiettivi comunitari se non si vuole subire il costo di una maggiore perifericità dei nostri territori.
Mi corre l’obbligo di segnalare un’altra esigenza che accomuna tutte le Regioni del Mezzogiorno, esigenza che può essere soddisfatta sia con l’impegno dei diretti interessati sia con un fattivo impegno dei poteri pubblici statali. Molte Regioni e molti altri Enti locali non dispongono di apparati operativi soddisfacenti o comunque tali da consentire un adeguato sfruttamento delle opportunità emergenti dai processi storici in atto e la difesa dai vincoli e condizionamenti negativi che di norma si accompagnano alla opportunità.
Questa circostanza spiega perché solo una parte delle risorse previste dalle politiche comunitarie viene sfruttata puntualmente e adeguatamente perché taluni provvedimenti della CEE o dello Stato, benché astrattamente utili, non producano effetti concreti e, in generale, perché si riscontrano ritardi e carenze di tipo vario nelle gestioni di molti Enti locali.
Orbene, l’obiettivo dello sviluppo socio-economico richiede con forza l’adeguamento degli apparati regionali e degli altri Enti locali rispetto agli imperativi della tempestività e dell’efficienza.
Si noti che questo rientra certamente nei compiti di ciascuno degli Enti locali ma molti di essi, nonostante i buoni propositi non possono operare nel senso prospettato a causa di divieti legislativi previsti con leggi statali che limitano le possibilità di azione così come a causa di mancanza di risorse che, almeno in parte, dovrebbero essere fornite dallo Stato proprio perché il problema dell’efficienza delle Regioni e degli Enti locali corrisponde ad un preciso e notevole interesse generale.