Commento a “Parole in Bertula” di Gianpaolo Mele, Nuoro, anni ’90

Nel leggere “Parole in Bertula” ho avvertito un’emozione strana ed incoerente.
La delicata armonia che si dischiude dai versi mal si accorda con l’immagine che uno può superficialmente farsi di Gian Paolo Mele. Quanto più la sua poesia fluttua lieve ed eterea negli spazi aperti dalla fantasia, tanto più vi si oppone la sua immagine, tagliata con l’accetta di chi va per le spicce, con la sola concessione agli abbandoni del canto corale.
“Parole in Bertula” svela la multiforme creatività dell’artista: musicalità e poesia si compenetrano e fondono nell’unità spirituale che le ha generate
Vi si avverte la continuità che scorre fra i canti interpretati dai tanti cori di Sardegna ed il vagabondare poetico di Gian Paolo Mele.
Leggendo quest’opera, si svela il mistero di quanto sia rozzamente riduttivo il concetto del Folklore, confinato fra le arti minori, non degno della cultura dotta, ma patrimonio popolare cui l’aristocrazia intellettuale presta benevola curiosità. Non essendo un critico di letteratura sono libero di dire cose che all’analisi estetica di uno specialista appariranno banali: colgo nella poetica di Gian Paolo Mele una spontaneità di dialogo che gli consente di ascoltare i messaggi che si diffondono dalle cose, dagli oggetti, dagli elementi, dalle stelle, dall’immenso e parlano al suo cuore del dolore e dell’amore, dell’amicizia e della tristezza, della speranza e del perdono.
L’essenza della poesia di Gian Polo Mele è racchiusa nel messaggio d’amore per Nuoro. Ma si avverte che Nuoro, con i suoi scenari di montagne e vallate, di strade, stradine e focolari, con la sua umanità fiera, gioiosa ed amara, orfana degli uomini di gabbale, diviene personaggio protagonista e si rivela per quello che è: cuore palpitante di Sardegna, spirito e respiro di un popolo.
No! non colgo nelle “Parole in Bertula” struggenti nostalgie di un irripetibile passato ma un costante, vitale recupero delle proprie radici, delle intragne che hanno generato, nella sofferenza indomita dei millenni, un popolo, una cultura, una civiltà, intessuta nel panno ruvido dell’orbace che mentre brucia la nudità del corpo lo protegge dal freddo gelido dell’indifferenza ed infonde il calore della speranza.
Non c’è rimpianto nella poesia di Mele, un rifugiarsi nella protezione illusoria dei ricordi, dei fantasmi, ma un atto d’amore che ha l’intensità e la ricchezza spirituale del sentire universale: la propria terra, la propria gente. Un sentire che nasce e prende forza dalle radici per rifiorire nelle mille e mille primavere avvenire.