Ricordo di Piero Borrotzu – 51° Anniversario della Liberazione – Orani – Auditorium Comunale – 27 Aprile 1996

Signor Sindaco, Signor Preside, Illustri Docenti – Cari Ragazzi,
quando il Sindaco di Orani mi ha chiesto di ricordare a Voi, in questa data che celebra l’anniversario della riconquistata libertà democratica nel nostro Paese, la figura dell’oranese Piero Borrotzu, ho accettato con grato entusiasmo pensando all’amico col quale ho vissuto infanzia, adolescenza e giovinezza in un rapporto di amicizia reso più saldo e profondo dalla contemporanea amicizia che legava le nostre famiglie.
Per alcuni anni siamo stati anche compagni di scuola; nel preparare le lezioni era molto frequente che io mi trasferissi a casa sua o lui a casa mia, aiutandoci reciprocamente a superare le severe interrogazioni dei nostri insegnanti.
Accettando l’invito del Sindaco mi sembrava di reincontrare il mio amico Piero, la sua cordialità fidente, il sorriso rivelatore di una spiritualità limpida, spontanea, generosa. Un amico col quale faceva piacere stare perché se ne avvertiva la calda umanità, il desiderio di partecipare al fiorire delle molteplici iniziative suscitate dalla nostra fantasia di ragazzi ancora inesperti ma curiosi e, direi, intensamente desiderosi di esprimere iniziative e comportamenti nuovi, magari quelli che vedevamo praticare dai più grandi.
Piero era un ragazzo semplice di una spontaneità disarmante; direi che la nota dominante della sua personalità era il candore.
Candore, badate non ingenuità; nel suo mondo interiore non esisteva furberia, chiusura egoistica e neppure riserva mentale su possibili cattiverie altrui.
Il suo rapporto umano era ispirato a confidenza nel senso etimologico del termine: “con fede”; aveva aprioristica fiducia nella lealtà degli altri.
Credo sia illuminante soffermarci su un particolare apparentemente secondario ma, a mio avviso, estremamente significativo.
Piero era uno sportivo: lo aiutava in questo un corpo agile, elegante che ne faceva quel che si dice un bel ragazzo. Era forte nell’atletica, non praticava – che io sappia – il pugilato, ed era un poderoso ciclista. Fra noi ragazzi, allora, le gare erano frequentissime.
Ebbene Piero, pur essendo uno dei più assidui partecipanti, non manifestava alcun spirito di emulazione o di sfida. Le competizioni sportive non erano per lui un’occasione per cogliere primati, ma solo partecipazione gioiosa ad una festa comune.
Un’opportunità per stare insieme e arricchire lo spirito di nuove e comuni esperienze. Insomma: un’occasione per far festa, rompendo la routine quotidiana con momenti di serenità e gioia comunitaria, capace di vincere la solitudine individuale così frequente – pur se fugace – fra i ragazzi.
Non ricordo fra i coetanei un’atleta più forte di lui, ma non mi pare di ricordare un medagliere di primati che pure avrebbe potuto conseguire; non lo interessava.
Amava invece scherzare facendo ed accettando l’ironia con scambio di battute e frecciate volte a smitizzare ma soprattutto a cogliere gli aspetti più simpatici e, all’occasione, umoristici di ogni situazione.
In questo spirito, specie incontrando bambini, ma anche a conclusione di feste familiari o fra amici, si divertiva ad imitare con tanta efficacia il verso di alcuni animali, sì da suscitare lo sconcerto degli astanti, sorpresi per la presenza di un animale così vicino ed incombente   per cui era istintivo il girarsi in ogni direzione alla sua ricerca. Lo sconcerto diventava festosa ilarità quando, pochi istanti dopo, si scopriva il simpatico scherzo.
A questo punto vi chiederete: ma questo era Piero Borrotzu ? il mitico eroe Piero Borrotzu?
Si era così: semplice, sereno con una gran voglia di vivere, di partecipare, di fare, divertirsi e divertire in un intreccio di rapporti umani ispirati a simpatia e solidarietà. In breve: un antieroe !
Non amava i toni enfatici né gli atteggiamenti di innaturale fierezza. Appariva – ma non lo era – un timido tanto era pudico quando doveva in qualche modo affermare se stesso; un ragazzo che viveva l’ardimento, non per sfidare, contrapporsi, superare od annullare altri ma stimolato soltanto dal desiderio d’avventurarsi nei campi inesplorati delle umane esperienze, nei vasti orizzonti del sapere come del quotidiano operare.
Un ardimento radicato nelle certezze morali, indubbiamente innate, ma sicuramente confermate nel caldo affetto della famiglia ed anche, in larga misura, nell’insegnamento della scuola.
I suoi capisaldi erano sostanzialmente due: pensare ed operare onesto; vivere la solidarietà aperta e fervida nei confronti degli altri. A questi principi Piero é stato fedele sino agli ultimi istanti della sua vita.
Voi tutti sapete come Piero è morto. Ebbene sappiate però che con la scelta partigiana ha consapevolmente messo in pericolo la propria vita ed infine – altrettanto consapevolmente – ha scelto di sacrificarla  in nome di un principio di valore universale: la libertà che tutti gli altri valori comprende, prima fra tutti: la dignità umana.
Chi aveva preparato Piero ad affrontare, con sì alta consapevolezza, la prova suprema riservatagli da un destino imperscrutabile e, per tanti versi, crudele ed ingiusto? Ebbene vi dirò cari ragazzi: nessuno.
Quello che per voi è oggi un fatto tanto consueto da apparirvi del tutto naturale, normalmente praticato: il libero confronto fra diverse opinioni politiche, il diritto di critica all’operare del governo e del partito, (o dei partiti) che in questo è rappresentato; le quattro libertà scaturite dal bagno di sangue seguito alla Rivoluzione francese: libertà di parola, di stampa, di associazione, di religione, salvo che per quanto attiene la religione, per la generazione di Piero e quindi anche per me che vi parlo, non solo erano vietate, ma costituivano reato.
Chi criticava il governo o il partito unico che lo gestiva, e cioè il Partito Fascista, veniva arrestato e condannato alla prigione; solo nei casi più lievi il colpevole veniva allontanato dal proprio paese, dal lavoro e dalla famiglia e condannato al confino. Una sorta di esilio da scontarsi in un luogo lontano dalla propria regione.
Chi non era iscritto al partito di governo non aveva diritto di accedere agli impieghi dello Stato né di frequentare la scuola pubblica. Se, per qualche ragione, ad un impiegato di ente pubblico, o ad uno studente veniva revocata la tessera del Partito Fascista era automaticamente dimesso dall’impiego e se, studente, espulso da tutte le scuole dello Stato.
Poiché questo regime si è affermato intorno agli anni ’20, va da sé che solo    coloro che a quella data avevano maturato un’esperienza democratica e non condivideva l’ideologia fascista, potevano scegliere di combatterla, accettando così la galera e l’esilio come hanno fatto Antonio Gramsci, Cesarino Pintus, Emilio Lussu e tanti altri, o rinunciare alla vita pubblica, non accodandosi alla turba dei nuovi padroni dello Stato testimoniando, con il loro silenzio, un ideale ripulsa.
Questo era possibile ad artigiani, liberi professionisti, cittadini variamente impegnati in diverse attività non dipendenti da istituzioni dello Stato.
Fra queste personalità mi piace ricordarne proprio una donna di Orani:  Marianna Bussalay. Una donna straordinaria che, pur minata nel fisico da malattia che rendeva estremamente precaria la sua stessa esistenza, aveva nel cuore il sacro fuoco degli ideali.  E dai suoi occhi luminosi si irradiava una forza intellettuale e morale che affascinava i compaesani ed i tanti amici che aveva in Sardegna e fuori di Sardegna.
Vanamente le gerarchie fasciste cercavano di isolarla sottoponendola ad una vera e propria vigilanza speciale; tale era il rispetto e l’affetto da cui era circondata che nella sua casa si susseguivano costanti e numerose le visite (quasi un pellegrinaggio spirituale) di persone che ricercavano nelle sue parole quelle certezze morali ed ideali che il mondo ufficiale dileggiava e perseguitava.
Ma noi – allora ragazzi – non conoscevamo termini di paragone con alcun passato. Siamo nati negli anni in cui il Partito Fascista si affermava e, conquistando il potere, instaurava la sua dittatura.
Per noi le gerarchie fasciste si identificavano con le gerarchie dello Stato e poiché, ripeto, non conoscevamo termini di confronto cui potessimo attingere valutazioni critiche, (o comunque diverse   da ciò che ci veniva insegnato nelle strutture organizzative di cui facevamo obbligatoriamente parte) non ci ponevamo neppure il problema di una possibile opposizione o dissenso.
Ci veniva spiegato che prima dell’avvento fascista l’Italia era sommersa nel caos sociale ed economico e che la ferma azione del Duce aveva imposto l’ordine e restituito prestigio internazionale all’immagine della Patria.
Ci veniva altresì spiegato che era nostro dovere storico, ed il Duce ci avrebbe guidato in questa esaltante impresa, riconquistare l’antico impero romano, ristabilendo piena egemonia italiana sul mare Mediterraneo che nei testi scolastici veniva chiamato, come ai tempi dell’antica Roma, “Mare Nostrum” !
Con questa cultura, con tale formazione morale e politica la nostra generazione, quella che nel 1941 aveva vent’anni, è stata chiamata a servire la patria in guerra.
Per quanto mi riguarda nell’ottobre 1941 – interrotti gli studi universitari – prestavo servizio col grado di sergente, fra le truppe di occupazione che presiedevano il fronte Balcanico in Slovenia.
Piero, a quella data, frequentava, insieme ad un altro comune amico nuorese, Antonio Mereu, – sacrificato anche lui nella lotta di liberazione dai nazifascisti in quel di Bologna –   l’Accademia militare di Modena.
Non so ricordare con precisione le date, ma credo di poter dire di averli visti, l’ultima volta, in un incontro del tutto occasionale, a Sassari; credo nella primavera del 1943. Loro indossavano l’elegante divisa di giovani ufficiali ed io quella più modesta di sottufficiale. È uno dei ricordi più belli e cari della mia giovinezza.
Il nostro fu un incontro tanto fraternamente cordiale quanto torrentizio; facevamo a gara nello scambiarci tutte le possibili informazioni sulle esperienze del tutto nuove che avevamo maturato nei due anni che ci avevano visto lontani dalla Sardegna ed impegnati nell’assolvimento di obblighi militari ai quali per altro eravamo stati preparati sin dall’infanzia. Fu un incontro fugace; non ci siamo più incontrati.
Il Piero che io ricordo e del quale vi parlo è quello che ho sempre conosciuto e che ho incontrato per l’ultima volta a Sassari: spontaneo, gioioso, desideroso di raccontarti ciò che aveva arricchito il suo cuore di nuove creative esperienze, come di ascoltare le tue. Voleva, come sempre, partecipare, pieno di slanci generosi, d’illuminazioni emotivamente suscitate dai rapporti umani, o da riflessioni maturate nel suo mondo interiore.
Nella sua vita non c’erano angoli oscuri, o riserve mentali; il candore che ne dominava la personalità lo accompagnerà, quasi un alone di fulgida purezza, nei momenti supremi del sacrificio.
Non è difficile immaginare quale sia stata la forza-guida che ha ispirato le scelte di Piero dopo l’8 settembre 1943 quando il Governo Badoglio, che aveva sostituito il Governo Mussolini (messo in crisi dal massimo organo deliberante dello stesso Partito fascista con una severa critica della condotta di guerra e sollecitazione del conferimento di pieni poteri al Re) decise la resa senza condizioni dell’esercito italiano alle Forze Alleate che già occupavano una parte rilevante del territorio nazionale; Piero non ebbe dubbi: obbedienza agli ordini del Capo dello Stato ed al suo legittimo Governo che, con la resa, intendeva far cessare il fuoco sterminatore della guerra ormai chiaramente perduta sia per l’Italia che per i suoi alleati tedeschi e giapponesi.
Purtroppo erano presenti in Italia imponenti forze armate tedesche ed Hitler le ha spregiudicatamente utilizzate per ritardare l’avanzata delle truppe alleate verso i confini della Germania. Pur non esistendo alcuna speranza di possibile capovolgimento delle sorti della guerra, appare evidente che Hitler ha voluto coinvolgere nella sua rovina quel mondo che nel suo funesto programma aveva sognato di dominare.
Continuò la guerra condannando anche illustri città tedesche come Colonia, Dresda, la stessa Berlino e tante altre alla distruzione pressoché totale. Lui stesso si tolse la vita quando ormai i russi erano entrati in Berlino e stavano per farlo prigioniero.
In questo spirito ed obbedendo ad un disegno oscuro volle che l’Italia fosse percorsa dal fuoco della lotta fratricida, liberando Mussolini da una dorata prigionia, (che trascorreva in un grande albergo di Campo Imperatore, località turistica del Gran Sasso) inducendolo a riarmare le milizie fasciste per costringere gli italiani a disobbedire al legittimo Governo del Re, ed a sterminare chi si opponeva a tale disegno.
Ebbene, con la stessa generosa dedizione con la quale Piero aveva obbedito agli ordini del Governo guidato da Mussolini, decise di obbedire al legittimo Governo guidato dal generale Badoglio.
Sul piano politico, per un uomo della sua lealtà, non c’erano soluzioni diverse:  o con Mussolini e quindi coi tedeschi, o contro. Altri, tanti altri in verità, hanno preferito nascondersi e sfuggire così alla scelta di schieramento, attendendo nascosti la fine della guerra.
Piero, ne sono convinto, non pensava di fare scelte eroiche ma molto più semplicemente il proprio dovere di cittadino e di soldato. Ma a ben guardare fu anche una scelta di campo. Vide nel comportamento dell’esercito tedesco un’inaccettabile occupazione militare del suolo della Patria con conseguente annientamento della libertà di scelta fra pace o guerra da parte del popolo italiano. Scelse di combattere per la libertà. Divenne così partigiano. Fu una esperienza breve ma intensa, fervida ed esaltante.
La sua intelligenza, tanto vigile quanto pura, gli fece scoprire, attraverso l’oppressione, il valore della libertà; tutta la ricchezza del confronto aperto e vivificante delle idee; la stessa democrazia che, alimentandosi di consenso popolare, diventa istituzione e guida dello Stato. Sono valori dello spirito che l’umanità ha conquistato con i travagli rivoluzionari passati attraverso spaventosi bagni di sangue ma che Piero apprende, e fa propri, nella pratica tesa e creativa dell’esperienza partigiana. Il suo confrontarsi con la realtà dura e crudele della guerra civile gli suggerisce comportamenti così saggi, misurati ed efficienti da conquistargli la fiducia ed il crescente consenso di quanti hanno la ventura di conoscerlo e comunque di seguirne l’azione.
È sempre determinato e preciso, rispettoso di tutti e da tutti rispettato. Così, senza strafare né gridare rivela le sue qualità di capo, di guida alla quale ci si affida in situazioni di così alta drammaticità che la stessa vita è in costante pericolo.
Così nei fatti fiorisce la leggenda del capo partigiano Piero. Non imposto da un superiore comando ma tale elevatosi nella considerazione e nell’affetto degli uomini che corrono volontari a mettersi sotto il suo comando. Anche le popolazioni vogliono bene al “Comandante Piero”. Pur sapendo di esporsi a rischi mortali da parte delle milizie fasciste – che fucilano inesorabilmente chi, a qualsivoglia titolo, ha rapporto con i partigiani, – lo aiutano procurandogli viveri ed indumenti per i suoi uomini.
Aiuti che la popolazione sottrae ai propri consumi dalle pur scarse disponibilità imposte dal drastico razionamento sul quale vigilano i soldati tedeschi, i militi fascisti e le insidiose – purtroppo diffuse – spie. Viveri, indumenti ed informazioni che consentono al suo distaccamento, tempestività di movimenti e di iniziativa.
E così, una volta, nottetempo, con una parte dei suoi uomini, piomba improvviso nella caserma dei militi fascisti di Carro e dopo averli colti di sorpresa e costretti, con un’azione militare tatticamente perfetta, alla resa, si impossessa delle loro armi: moschetti, fucili mitragliatori, pistole, bombe, esplosivi vari e gran numero di munizioni.
Ciò che importa rilevare è che in questa occasione non solo non uccide né ferisce alcuno ma dinnanzi ai militi che, tremebondi, implorano d’aver salva la vita, mette mano al suo portafoglio per risarcire un milite fascista della somma di mille lire (circa un milione delle lire di oggi) che dice di aver perduto nelle confusione dell’attacco e che secondo quel milite sono essenziali per la sopravvivenza dei numerosi figli che attendono quelle mille lire per assicurarsi il pane quotidiano.
Ecco, vedete, il ragazzo Piero Borrotzu non odiava le persone; a quei militi non fa alcun male e impedisce ad uno dei suoi uomini di sfogare su di loro la rabbia per qualche violento sopruso subito in precedenza.
Nell’animo di Piero non si proiettano le ombre cupe dell’odio, ma risplende limpida solo la forza degli ideali. Per lui gli uomini, qualunque sia il loro schieramento, non sono altro che creature coinvolte e spesso travolte da eventi più grandi di loro. Anche quando, l’ultimo giorno della sua vita, viene informato dalla padrona di casa che l’abitazione è circondata dai militari tedeschi, invita la donna alla calma e controlla dalla finestra la disposizione dei militari tedeschi che vigilano attorno all’abitazione.
Ecco ragazzi, ci avviciniamo al momento più alto, più bello e luminoso dell’umana vicenda di questo giovane semplice, buono, leale .
Osservando dalla finestra quei soldati si rende conto che, sfruttando la sorpresa, che nella tattica militare è sempre l’arma vincente, può, nel breve volgere di pochi secondi, data la breve distanza, uccidere con la sua pistola due o tre di quei militari (i soli che vigilano su quel lato della casa) e, sfruttando l’iniziale smarrimento, volare giù dalla finestra e scomparire nella fitta boscaglia contigua alla casa nella quale si trova. Potrebbe farlo Piero e – quasi certamente – salvarsi, ma non lo fa; perché?
Perché è ben consapevole che per ogni militare ucciso dai partigiani, i tedeschi uccideranno dieci persone scelte a caso fra la popolazione civile.
La sua vita quindi contro quella non di due o tre militari tedeschi, ma di venti o trenta cittadini del paese che lo ha sempre accolto con affetto, aiutato e protetto.
E Piero fa dono di  sé  a quella popolazione. Se non avessi timore di suscitare reazioni per accostamenti ritenuti profani, direi che Piero in quel momento, ha ripercorso uno dei passi più belli – perché aperti alla speranza ed alla redenzione – che il sacerdote celebra nel sacrificio della messa quando Cristo fa dono del proprio Corpo e Sangue con l’offerta del pane e del vino agli Apostoli per la redenzione loro e di tutti gli uomini. Il Cristo ormai pronto per la terribile prova del Calvario; e Piero, che non ha mai ucciso, si avvia volontariamente a percorrere il suo Calvario.
Lo fa con grande dignità dinnanzi ad una popolazione che lo guarda commossa e ammirata andare, fra gli aguzzini, verso il patibolo.
Riflettete su questo ragazzi.
Piero fa questa scelta non perché affascinato né esaltato dal mito del martirio; credo anzi che in quei drammatici momenti abbia vissuto, nella sua umanità, l’istintiva paura della morte; sceglie di morire per salvare la vita degli altri, le decine di persone che i tedeschi avrebbero sacrificato per vendicare i due o tre militari che avrebbe dovuto abbattere per aprirsi la via della fuga.
Assistiamo così al trionfo della generosità sulla paura che, nella sua struggente umanità,  doveva pure avvertire. Avvertiva certo l’infinita tristezza del lacerante distacco dalla madre, dalla sorella, dalla giovane fidanzata e dalle persone amate; come avvertiva il dolore, soprattutto della madre che aveva perduto, ancor giovanissima, il marito (in conseguenza di gravi ferite riportate nella prima guerra mondiale) e che ora perdeva lui, l’unico figlio maschio che ne perpetuava il ricordo, l’immagine, il nome.
Quale onda di sentimenti ha riempito e sommerso il suo cuore in quei supremi istanti! Pur sfigurato dalla rabbiosa violenza che i tedeschi e i fascisti hanno esercitato sul suo corpo nell’inutile speranza di fargli confessare i nomi di chi aiutava i partigiani, dove questi si trovassero, quali fossero i loro collegamenti e programmi, Piero, secondo i testimoni che hanno assistito al suo martirio, conservava altera la sua nobile bellezza.
Quando il plotone di esecuzione era già schierato e pronto a scaricare su di lui, con la raffica di piombo, la rabbia della loro morale sconfitta, lo sguardo di Piero era volto verso le lontananze marine in un ideale trepido abbraccio con la madre, la sorella, la giovane fidanzata.
Sì ragazzi, nel morire Piero aveva vinto, elevandosi con la sua forza morale sulla meschina violenza dei suoi aguzzini, elevandosi al di la del tempo per diventare un simbolo, un esempio, un momento di storia.
La storia nobile e bella che l’umanità scrive, attraverso i suoi figli migliori, nelle pagine luminose della civiltà. Piero ha scritto la sua pagina.
Leggetela ragazzi, leggetela con rispetto e con simpatia perché l’ha scritta uno di voi, un ragazzo di Orani che non voleva essere eroe, ma un uomo, un uomo libero.
Ecco, abbiamo ricordato un amico, un ragazzo che nel morire si è caricato le sofferenze del mondo per dare agli altri la luce della vita, la libertà.