Discussione e approvazione con modificazioni – Senato della Repubblica – VII Legislatura – 382a seduta pubblica – mercoledì 21 marzo 1979

Discussione e approvazione con modificazioni:
«Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 30 gennaio 1979, n. 26, concernente provvedimenti urgenti per l’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi»

Presidente. È iscritto a parlare il senatore Melis. Ne ha facoltà.
Melis. Signor Presidente, onorevole rappresentante del Governo, colleghi senatori, le modifiche apportate dalle Commissioni riunite del Senato al testo approvato dalla Camera dei deputati del provvedimento legislativo concernente gli interventi urgenti per la amministrazione straordinaria delle aziende in crisi, hanno suscitato nel Gruppo della sinistra indipendente ed in me, sardista, non lievi perplessità.
Siamo stati come i colleghi degli altri Gruppi convinti assertori dell’inderogabile esigenza di elaborare uno strumento legislativo nuovo ed originale, che consenta al potere pubblico una più incisiva e penetrante capacità d’intervento nel governo dell’apparato industriale operante nel paese, riconducendo a coerenza e razionalità le attività produttive nei settori portanti della nostra economia.
Abbiamo ritenuto e riteniamo che l’abbandonare aziende gravate da rilevante esposizione debitoria alle ordinarie procedure della legge fallimentare significherebbe innescare crisi irreversibili di allarmanti proporzioni, le quali provocherebbero effetti sconvolgenti sul piano sociale, economico e civile. Decine di migliaia di operai verrebbero licenziati ed enormi investimenti, prevalentemente pubblici, andrebbero vanificati. Una rilevante quota del nostro commercio con l’estero verrebbe cancellata dal mercato internazionale e verrebbe ulteriormente aumentata la dipendenza italiana dalle importazioni dall’estero; la nostra bilancia commerciale poi sarebbe pericolosamente risospinta verso passività di un non lontano passato. La credibilità stessa e il peso politico del nostro paese risulterebbero danneggiati.
Ma siamo consapevoli che sul piano interno a pagare le più dure conseguenze sarebbero i lavoratori e in particolare quelli delle regioni meridionali e delle isole, nel cui ambito territoriale sono, in larga prevalenza, insediate le imprese in crisi. Mentre vi parlo ho ben presenti i circa diecimila operai sardi licenziati o in cassa integrazione dipendenti dalle industrie chimiche e petrolchimiche della SIR-RUMIANCA, della ANIC-MONTEDISON, della Metallurgica del Tirso e di tante altre imprese esterne da queste dipendenti o con esse collegate. Penso ai centri industriali di Cagliari, Ottana, Porto Torres, sorti all’insegna politica della rinascita, oggi coinvolti globalmente nella crisi, ridotti, Cagliari in particolare, a muta testimonianza di un fallimento inaccettabile e, come tale, fermamente respinto, non solo dagli operai in lotta, ma dalla coscienza civile di tutti i sardi, più che mai decisi a non subire passivamente le imposizioni e le prevaricazioni esterne.
Il problema quindi travalica il pur significativo ambito economico in cui trova la sua genesi per acquisire chiare e precise connotazioni politiche. Esce dalla sua dimensione di interesse privato per coinvolgere, in termini inequivoci, l’interesse pubblico. Emerge così il significato politico del provvedimento legislativo, volto non certo a salvaguardare gli interessi di imprenditori inetti, o disinvolti e spregiudicati nella gestione dì aziende finanziate con denaro pubblico, sibbene le aziende stesse in vista del ruolo cui assolvono nel contesto sociale, economico e civile nel quale sono inserite.
Ho già detto che il provvedimento risponde ad una precisa esigenza di moralizzazione. Di fatto le grandi aziende, anche se notoriamente in crisi, hanno operato e continuano ad operare extra legem e contra legem, fidando in un vero e proprio regime di impunità, tacitamente concesso, non solo dai creditori privati, ma dallo stesso potere pubblico. Il terrore che con il loro fallimento vengano sconvolti equilibri sociali ed economici, formatisi per gli effetti promozionali suscitati dalle aziende, crea una rete di condizionamenti, di protezioni, di complicità; costringe lo stesso potere pubblico ad intervenire con ulteriori agevolazioni finanziarie, insufficienti, di norma, a superare la crisi, ma, comunque, sufficienti a garantire, nel breve periodo, la sopravvivenza aziendale ed occupazionale.
L’imprenditore gode così di uno status di irresponsabilità profondamente immorale e socialmente pericoloso; mentre, per contro, gli operai, i sindacati, le forze sociali debbono subire una permanente condizione di precarietà, di insicurezza che limita e dequalifica la loro capacità contrattuale.
L’azienda cessa così di essere strumento propulsore di progresso, di vita, per degradarsi a centro di assistenza, di clientela politica e, in ultima analisi, di corruzione.
Con il provvedimento sottoposto al nostro esame si taglia netto con gli avvilenti compromessi di cui parlavo; si estromettono dalla gestione gli imprenditori inetti, o peggio, e si dà vita ad una nuova gestione affidata ad uno o più commissari-imprenditori, di nomina pubblica, il cui compito è quello di attivare, entro un termine stabilito, il processo di risanamento dell’azienda, assicurando, con la continuità produttiva e la permanenza nel mercato dell’azienda, la salvaguardia dei posti di lavoro.
La previsione legislativa offre all’iniziativa del commissario un’ampia ed articolata fa-
scia di’ poteri che, sotto il controllo del Ministro, del CIPI e del comitato di sorveglianza, garantisce il corretto perseguimento delle finalità pubbliche che sono alla base dell’intervento del Governo.
Siamo certo consapevoli della natura straordinaria di tale provvedimento, che si configura sotto l’aspetto giuridico quale eccezione alle ordinarie procedure previste dalla legge fallimentare; proprio per questo sarebbe stato forse meglio evitarne l’istituzionalizzazione con la previsione astratta di tutti i possibili casi che, verificandosene i presupposti, potrebbero in avvenire esserne disciplinati e limitarsi alla individuazione pura e semplice delle grandi aziende oggi in crisi: avremmo fatto maggiore chiarezza elaborando uno strumento più penetrante ed aderente alla realtà in atto.
Ma anche seguendo quest’altra soluzione non ci saremmo potuti sottrarre all’esigenza di dar vita ad istituti giuridici che costituiscono una eccezione a quelli ordinari. In verità questi denunciano la loro età e si dimostrano superati ed incapaci di dare una risposta adeguata al multiforme e dinamico evolversi della moderna economia. Questa ; esperienza legislativa potrà quindi rivelarsi indubbiamente utile nell’affrontare la riforma del nostro ordinamento giuridico anche nella specifica materia delle procedure fallimentari.
Quel che va sottolineato è l’assoluta impraticabilità di queste, posto che la loro applicazione condurrebbe all’arresto delle attività produttive, all’estromissione dal mercato delle aziende ed al licenziamento generalizzato degli addetti con tutte le conseguenze di ordine economico, sociale e politico facilmente prevedibili. Né mi pare che con l’odierno provvedimento si violi il principio costituzionale della par condicio perché il diverso trattamento riservato alle grandi aziende trova la sua piena legittimazione nella diversità dei presupposti e nel prevalere dell’interesse pubblico su quello privato.
Siamo altresì concordi sul metodo prescelto per l’individuazione delle condizioni oggettive che debbono sussistere per attivare l’intervento pubblico.
Dissentiamo però fermamente dal concetto seguito dalle Commissioni riunite del Senato nella valutazione del concetto di gruppo. E questo un organismo complesso, strutturato sulla base dì articolazioni diverse, ma coerenti e convergenti ad perseguimento di finalità che sono comuni ed essenziali per l’attività di tutte le componenti del gruppo medesimo. Seguendo un diverso ordine concettuale, il gruppo viene disarticolato. L’esempio che citava poc’anzi il collega Benedetti mi pare sia emblematico. E verrebbero coinvolte nel provvedimento esclusivamente quelle aziende che l’imprenditore ha sospinto nelle sabbie mobili della esposizione debitoria, salvaguardando al possesso dello stesso quelle che hanno prosperato proprio sulla rovina delle prime.
Si perpetuerebbero così una logica e una prassi di tipo assistenziale, continuando ad addossare alla collettività gli sperperi, le malversazioni, i passivi del gruppo e riservando all’imprenditore solo gli utili.
Certo sono ben consapevole che di ciò si potrà disquisire con pregevoli quanto dotte dissertazioni giuridiche ed economiche, ma la sostanza politica del risultato resta la squallida vittoria dei furbi che praticano la morale della socializzazione delle perdite e della privatizzazione degli utili, cosa di cui anche il più sperduto ed emarginato contadino delle nostre campagne è amaramente consapevole.
Né a superare questo trattamento di imprudente privilegiò soccorre il ricorso alla azione revocatoria, cui faceva riferimento poc’anzi il collega Labor, proponibile dai commissari, essendo a tutti nota la estrema macchinosità e lungaggine di questa procedura. Per giungere alla sentenza occorrono anni, mentre questo provvedimento si caratterizza per la sua urgenza e tempestività. Per queste considerazioni, ove esse non venissero superate con adeguati emendamenti — dì cui diciamo subito che quello proposto all’articolo 3 dai colleghi del Gruppo comunista ci trova del tutto concordi — rifiuteremo il nostro voto al provvedimento, dichiarando l’astensione del Gruppo della sinistra indipendente e del Partito sardo di azione. (Applausi dalla estrema sinistra).